Vademecum del parlamentare meridionale

Le direzioni regionali dei partiti stanno completando la stesura dell’elenco dei candidati campani alle elezioni europee non senza, ci accorgiamo, palpabili tensioni. Siamo uomini sufficientemente di mondo da comprendere che l’individuazione dei nostri rappresentanti a Bruxelles si basa su di una molteplicità di vincoli e di criteri. Vincoli e di criteri che molto hanno a che fare con il serbatoio di voti del candidato, con la sua partecipazione a una corrente del partito piuttosto che all’altra, sulla presunta lungimiranza che oggi, in tempo di temperie specie a sinistra, allontanarsi dalla regione può solo far bene al proprio futuro politico. Quale che sia l’elettorato passivo ci permettiamo, umilmente, di consigliare che la lauta retribuzione del quinquennio legislativo di Bruxelles e delle sedute plenarie a Strasburgo sia affrontata con un minimo di dignità e, possibilmente, di competenza, senza che essa sia considerata come un mero periodo di transizione. Sul piano strettamente operativo il Parlamento e la Commissione Europea sono strane creature, permeate da un tasso di burocratismo che farebbe impallidire anche gli impiegati statali nostrani, dunque creature capaci, in breve tempo, di ridimensionare qualunque velleità d’impegno. Ma si perseveri: i defatiganti lavori delle commissioni sono oramai terreno di conquista dei rappresentanti della “core Europe”, ovvero Francia e Germania, di un gruppo di paesi nordici stakanovisti e del progressivo allargamento del ruolo della Spagna, cui efficienza, tecnocrazia poliglotta dell’Opus Dei e preparazione dei candidati consentono di intervenire decisamente in qualunque lavoro delle commissioni e nell’itinerario legislativo dell’assemblea. Per ciò che concerne la politica economica, l’Unione Europea si trova di fronte a decisioni cruciali rispetto alle quali sarebbe delittuoso, per i nostri futuri rappresentanti, assumere il ruolo passivo del peone, quale che sia il suo schieramento politico. Proviamo a elencarli. Uno dei pilastri delle policy europea è costituito, ancor prima della nascita dell’unione monetaria, dagli stretti vincoli imposti alle politiche di bilancio dei paesi aderenti. Sono i vincoli passati alla storia come il Patto di Stabilità che la Germania inizialmente pose per evitare le allegre finanze di taluni paesi e che l’attuale commissario Joaquin Almunia ripropone con ostinata pervicacia. Il Patto si trova oggi in una crisi irreversibile: gli sforamenti di Germania e di Francia, oggi più attente alla concretezza del ciclo più che alle dichiarazioni di principio; l’incalzare della crisi internazionale; la pilatesca riscrittura che due anni orsono la Commissione effettuò, pongono all’ordine dei lavori futuri il ruolo strategico del Parlamento Europeo rispetto alla Commissione. Che valutazioni danno gli eletti nostrani: l’osservazione rigida del Patto, che oramai imbraga l’economia europea al palo della recessione? L’esenzione, come una volta il presidente Prodi auspicava, delle spese d’investimento pubblico dal computo del disavanzo invalicabile? La messa in soffitta di un corsetto che il Financial Times indica come lo “Stupidity Pact”? Andiamo avanti. Il processo di convergenza tra le regioni arretrate e quelle dinamiche dell’Unione si è, oramai, arrestato dal 2001 in poi. Se si eccettuano la totalità dell’Irlanda, parti significative della Spagna e territori circoscritti del Portogallo e dell’Ungheria il tasso di crescita del triangolo economico tra Milano, Berlino e Parigi è stato sistematicamente maggiore di quello delle regioni periferiche. A fronte di una simile fenomeno degenerativo è inevitabile che il parlamento europeo sia chiamato, in un immediato futuro, a discutere e a fornire indirizzi alla Commissione circa le modalità di utilizzo dei fondi strutturali. Saranno privilegiate ancora le grandi opere infrastrutturali? Con quali procedure e tempistiche si ridefiniranno le aree beneficiarie delle risorse dell’Obiettivo Uno? Quali valutazioni saranno formulate circa la pochezza delle istituzioni locali meridionali e la conseguente incapacità strategica sulla rimozione di annosi vincoli strutturali? Saranno ripresentate proposte di regimi fiscali differenziati a favore delle regioni meno sviluppate? Infine, ma non da meno, decisioni non strettamente economiche, ma di ampio respiro umano e sociale. Le istituzioni comunitarie, siano esse il Parlamento o la Commissione, hanno più volte denunciato la scarsa propensione dell’esecutivo italiano a rimuovere situazioni in forte “odore” di discriminazione razziale. Rileggendo tali atti ci si accorge che le denunce, quasi per intero, si originano dall’organizzazione dei centri di accoglienza per gli extracomunitari e dalle aberrazioni che caratterizza la nostra, si fa per dire, ospitalità. Saranno i nostri eletti capaci di associarsi alle denunce europee o, per un malinteso senso di sciovinismo nazionale, si appiattiranno sul cinismo del nostro governo? Questo è quanto. Sarà, di certo, la capacità di discernere in proprio su simili grandi problemi a decidere quanto un parlamentare europeo meridionale saprà elevarsi dalla mediocrità, ancorchè “aurea”.

Repubblica NAPOLI, 23 aprile 2009

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