Buone intenzioni ed effetti perversi della spesa pubblica della Regione

Uno dei pochissimi vantaggi della gravità della crisi economica è costituito dalla ripresa, su due grandi temi della questione meridionale, di un dibattito assopito dalle ideologie correnti ma risvegliato dagli avvenimenti. “Le idee vanno e vengono, le storie restano”, scrive Nassim Nicholas Taleb che da (non) economista, di economia se ne intende più di molti di noi. E la storia del Mezzogiorno resta, mentre ritornano i grandi quesiti su come la sua divergenza relativa dal resto del paese e la minor immunizzazione alla crisi corrente debbano essere affrontati. Dal recentissimo rapporto sulle regione meridionali, curato dall’Isae, si può desumere che mentre gli indicatori di fiducia di famiglie e d’imprese registrano una caduta verticale nelle regioni meridionali, con particolare riguardo in Campania, rispettivamente per la contrazione degli ordini e per la diminuzione del reddito disponibile, nel medesimo territorio la quota d’imprese preoccupate circa le condizioni di accesso al credito è molto più bassa di quella riscontrabile per le regioni del Centro-Nord. Come a dire: il ripiegamento recessivo delle imprese meridionali è stato repentino e l’accesso al credito pare il minore dei problemi. E qualcuno ritorna ai quesiti cui abbiamo accennato all’inizio; lo fa Mariano D’Antonio che, in una lettera al Corriere del Mezzogiorno, ripropone quesiti cruciali, cui dà risposte nette e, direi, condivisibili. La prima: non è pensabile che la convergenza delle regioni meridionali possa avvenire in un contesto di politica economica nazionale, nel quale si assiste a «un tentativo ormai palese del governo nazionale di svuotare i programmi di spesa destinata al Mezzogiorno» e a un «saccheggio dei fondi europei e del fondo per le aree cosiddette sottoutilizzate». a soffermiamoci sul secondo quesito che riguarda, invece, le priorità della spesa pubblica nelle regioni meridionali e, dunque, l’identificazione di quei capitoli di bilancio che possano massimizzare gli effetti positivi d’impatto. A voler riassumere si potrebbe affermare che, rinverdendo una tradizione intellettuale che nella (vecchia) Svimez trovava il suo laboratorio più influente, D’Antonio ponga (o riproponga) la tematica dei prerequisiti. Fintanto che le condizioni di contesto non saranno modificate è difficile immaginare efficacia delle manovre di spesa anti-crisi: meglio sicurezza del territorio, certezza dei diritti di proprietà che vacui incentivi o erogazioni di reddito o di sussidi che poco cambiano la struttura produttiva regionale. Quale che sia la validazione, o la condanna, del singolo intervento, di tale argomentare resta valido un principio: un intervento ha senso se esistono le condizioni, dunque i prerequisiti, perché esso abbia efficacia. E qui pare che lo studioso parli all’assessore. La Regione Campania ha varato, nel medesimo giorno in cui è comparso l’articolo, un piano anti-crisi che si caratterizza per interventi a sostegno della domanda e dell’occupazione, delle fasce sociali deboli e per il consolidamento dei debiti a breve termine delle imprese verso il settore bancario. Tutte decisioni, in linea di principio, condivisibili. Ma esistono, per tutti gli interventi, i prerequisiti perché essi abbiano efficacia o, almeno, non determinino effetti perversi? In molti casi sì; in almeno uno no. Meritoria pare, infatti, la decisione di stanziare risorse integrative per i lavori in cassa integrazione o provenienti dai bacini industriali in crisi, specie da quello della Fiat di Pomigliano. Più preoccupante pare invece lo stanziamento per le attività di orientamento, di formazione e d’inserimento lavorativo. La piaga delle distorsioni della formazione professionale in Campania, dei corsi e dei (ri)corsi dei disoccupati, dei (misteriosi) stage in imprese, delle manifestazioni sotto i palazzi della Regione è fin troppo evidente perché D’Antonio non ne abbia memoria. Esistono i pre-requisiti perché ciò non accada più? O che stia parlando a suocera (il lettore) perché nuora (i colleghi) intenda?

Repubblica NAPOLI, 04 febbraio 2009

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