Fare affari con la Cina

La descrizione della realtà economica è spesso alterata da luoghi comuni che ne deformano i contenuti essenziali. Una di queste banalizzazioni riguarda la struttura produttiva della Cina. E anche le determinanti della sua competitività, il tipo di prodotti esportati sui mercati internazionali e la natura delle relazioni che ai paesi europei conviene instaurare con il paese dell’estremo oriente. Una vulgata che raccoglie unanime successo presso alcuni dei piccoli imprenditori e presso ambienti governativi cari al ministro Tremonti recita un copione così sintetizzabile: la Cina si è andata specializzando in prodotti a basso contenuto tecnologico, la cui competitività è basata esclusivamente sul fattore prezzo in ragione di bassi costi del lavoro; la sua politica commerciale, che incentiva la penetrazione in Occidente, “spiazza” dal mercato la laboriosa piccola imprenditoria italiana. Segue, necessariamente, che sarebbe opportuna che l’Italia o, ancora meglio, l’Unione europea, varassero misure protezionistiche, volte al contenimento o, addirittura, al contingentamento dei prodotti cinesi. Ovviamente, come ogni studioso di buon senso avverte, la realtà va in tutt’altra direzione. Non ambiamo ad affermare che la struttura produttiva orientale è guidata da “stinchi di santo”; è un fatto che la schizofrenia tra dirigismo politico e deregolamentazione economica che vige a Pechino e a Shangai rende la governance dei processi produttivi poco affidabile e il rispetto delle salubrità di talune merci poco trasparente. Ma da questo a rappresentare il colosso asiatico solo come un’enorme piramide di jeans e di borse contraffatte a basso prezzo ce ne corre. L’economia cinese, come ahimè ci ricorda spesso Federico Rampini con i suoi reportage, è un fenomeno complesso e articolato, nel quale la pochezza qualitativa di taluni beni tradizionali si coniuga al primato di frontiera raggiunto nelle biotecnologie e nella biomedica, nell’informatica e nell’aerospazio. Si tratta di un colosso forte nelle sue estremità: a monte in ragione di una politica industriale e di un indirizzo statale della ricerca che non trova eguali, nemmeno nella rampante India; a valle con una produzione di beni consumo standardizzati troppo competitivi, per illuderci di poterli limitare con vetuste politiche di protezionismo. Conviene tentare, se ci riusciamo, di vederne i potenziali effetti positivi per la nostra economia. Ogni qualvolta le imprese cinesi, ci ricorda la Banca d’Italia, guadagnano un punto di commercio mondiale in uno dei settori tradizionali, il prezzo medio mondiale, in questo medesimo settore, si abbassa di un quinto di punto. Sfruttiamo, dunque, questo calmiere all’inflazione, senza vittimismi sui presunti effetti devastanti dei cattivi “musi gialli”; pensassero, piuttosto, gli omologhi imprenditori italiani a ripristinare la propria competitività in virtù di salti qualitativi d’impresa. Ancora: la frontiera tecnologica cinese necessità, perché si tramuti in produzione di merci, di stabilire relazioni stabili con quelle imprese che, per cultura e per storia, riescano a tramutare invenzioni in innovazione di prodotto e in nuovi beni. Questo è quanto al Sino-Italian Exchange Event, che si apre oggi a Città della scienza e si conclude giovedì, l’élite produttiva e politica cinese viene a proporre alla nostra regione. Con i tempi di vacche magre che corrono, sarà il caso di dimenticare vecchi stereotipi e di pensare agli affari.

Repubblica NAPOLI, 25 novembre 2008

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