La caduta delle banche e i rischi per le famiglie

A distanza di un paio di settimane dalla sua manifestazione, è possibile individuare con maggiore precisione i contorni e l’estensione della crisi finanziaria internazionale. In un articolo precedente avevamo paventato, da queste colonne, il timore che i suoi effetti avrebbero finito inevitabilmente per estendersi all’economia europea e alle sue regioni meno sviluppate. E di tutto ciò riprendiamo a parlare, convinti che tempi non felici ci attendano sul versante del credito. Ma ripartiamo dalla saga di Wall Street e dalle decisioni delle autorità americane. Lo scorso venerdì notte il Congresso ha approvato il piano finanziario preparato dall’amministrazione. Si tratta di un’operazione di risanamento di un ammontare pari al prodotto interno lordo della Danimarca, tanto per intenderci, ovvero di una gigantesca redistribuzione di reddito dalle famiglie americane a favore di quegli istituti finanziari che presentano in bilancio attività oramai prive di valore sul mercato. Da taluni commentatori è stata proposta un’analogia con l’intervento attuato in Italia all’inizio degli anni Trenta, quando la Grande Crisi aveva reso insolventi le grandi banche miste. La differenza è tuttavia palese: allora lo Stato si ritrovò con un patrimonio industriale, quello dell’Iri, che sarebbe sopravissuto alla cupidigia della politica e all’inefficienza del management per oltre mezzo secolo; nel caso americano il Tesoro e la Federal Reserve si ritrovano con un patrimonio di attività finanziarie che nulla a che fare con il sistema produttivo e industriale. A voler essere realisti, il piano di Paulson, e la conseguente scomparsa della figura deregolata delle banche di investimento, ha una propria logica intrinseca. È una logica perversa ma, ahimè, ineccepibile: il capitalismo americano, per tradizione e per modalità di sviluppo, presenta una stretta interrelazione con la finanza. È dunque impensabile che la prima possa prescindere da un buon funzionamento della seconda, che solo superficialmente può essere bollata come economia di carta, che, consapevole della sua necessarietà, partorisce azzardi, filibustieri e speculazione. L’Europa, e qui ci riferiamo innanzitutto alla Banca Centrale Europea, dopo un decennio in cui aveva indicato le banche di affari americane come il modello di riferimento per i banchieri continentali, ha gestito la crisi finanziaria con modalità non del tutto ineccepibili: evitando un abbassamento dei tassi d’interesse; trasferendo la responsabilità degli interventi ai governi nazionali per evitare di immettere eccessiva liquidità in circolazione; riaffermando la “responsabilità primaria” del sistema bancario americano, come se, quasi per incanto, le inefficienze europee fossero divenute virtù. È indicativo che il ministro delle finanze tedesco Peter Steinbuck abbia, il 25 settembre scorso, dichiarato che l’America fosse la causa e l’epicentro della crisi, per ritrovarsi, a pochi giorni di distanza, a dover predisporre un finanziamento di trentacinque miliardi di euro per salvare la seconda banca per prestiti immobiliari, la Hypo Real Estate. E adesso veniamo alle banche italiane. Nonostante le reiterate assicurazioni delle autorità e dei banchieri privati (il lettore, per inciso, diffidi sempre delle assicurazioni pubbliche di solidità, anzi le legga sempre come un cattivo segnale) il sistema del credito meridionale è oramai coinvolto nella crisi per effetto di una serie di ricadute, che ora si manifestano con nitidezza. La prima ricaduta riguarda la maggiore onerosità dei prestiti immobiliari a tassi indicizzati. Chi avesse avuto la ventura di stipulare un mutuo a tasso indicizzato sa bene che il tasso di riferimento è costituito dall’Euribor, il tasso al quale le banche primarie europee si scambiano depositi a breve termine. Ebbene l’Euribor ha raggiunto il valore più elevato dell’ultimo quindicennio, con conseguenze immaginabili sulle rate dei mutui. Una seconda preoccupante ricaduta concerne l’amplissimo fenomeno del credito al consumo. A seguito della contrazione della capacità d’acquisto dei redditi meno elevati si è andato sviluppando in Campania un fiorente mercato dei prestiti alle famiglie, che sostituisce la vecchia emissione di cambiali e le rate commerciali. Si tratta di un’attività che le grandi banche perseguono con cinismo e con due distinte caratteristiche: l’elevatezza dei tassi d’interesse, giustificati dalla rischiosità del cliente, silente percettore di un modesto reddito fisso, e la volatilità dei fondi che a tali impieghi sono destinati. Ovvero: se le cose si mettono male o se il risiko internazionale muta le convenienze, il primo a risentirne sarà il credito destinato alle famiglie. Ora, con tutto l’ottimismo possibile, ci viene difficile da ipotizzare che le banche italiane più soggette alle temperie finanziarie e di borsa, UniCredit e Intesa San Paolo tanto per non far nomi, mantengano invariata l’allocazione e il prezzo delle risorse alla clientela meridionale. Infine una ricaduta fin troppo spesso sottovalutata: checché si legga su vetusti testi economici, i maggiori oneri finanziari sono traslati dalle imprese sui prezzi, alla stessa stregua di un aumento del salario o delle materie prime. E di tutto ha bisogno il Mezzogiorno in questo momento meno che di una causa aggiuntiva d’inflazione. Due canali, in conclusione, operano oggi per un inasprimento del credito al Sud; il primo canale, quello “finanza americana - finanza europea”, ha una portata che dipende dalla efficacia del piano di risanamento statunitense e dalla saggezza dei banchieri centrali europei; il secondo, il canale “finanza - settore reale” s’ingrosserà in ragione di quanto il Mezzogiorno assumerà una funzione di stabilizzatore dei bilanci delle aziende bancarie.

Repubblica NAPOLI, 07 ottobre 2008

 

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