La via regionale per contrastare la crisi

I temuti, anticipati effetti reali della crisi si vanno manifestando con modalità del tutto diverse da quanto era di recente accaduto nella finanza dei derivati e nelle Borse: mentre in questi ultimi un crollo è sancito, inequivocabilmente, dalla diminuzione di un indice o dal cedimento del prezzo di un’attività che non riesce a trovare compratori interessati, il mercato dei beni e quello del lavoro palesano contrazioni più silenti e progressive. Merci e occupazioni hanno contrattazioni capillarmente decentrate: la crisi produttiva si sostanzia in aumento delle scorte invendute e in licenziamenti e in ricorsi alla cassa integrazione che, frammentati, suscitano meno scalpore dell’andamento negativo della Borsa di Wall Street o di Francoforte. Eppure la recessione reale è già in atto nel nostro paese; e, come ci informa la Svimez, con maggiore vigore nel Sud e con differenti modalità d’innesco tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Nelle regioni settentrionali, pare, la contrazione della domanda aggregata è spiegata dal ridimensionamento dell’attività d’investimento, solo parzialmente compensata dal tentativo di competere sui mercati internazionali. Nel Mezzogiorno cala la domanda di beni di consumo in ragione di un minore reddito disponibile unitario e di una più ristretta base di consumatori a causa del decremento del tasso di occupazione. A tale asimmetria, suggerisce ancora la Svimez, non è estranea la filosofia delle misure praticate dal governo centrale ancor prima che la crisi si fosse manifestata: l’esenzione del pagamento dell’imposta comunale sugli immobili per la prima casa si è trasformata in una gigantesca redistribuzione di reddito. Una redistribuzione di reddito dai cittadini meridionali, potenziali usufruttuari di opere pubbliche già decise, ai proprietari di abitazione secondo un meccanismo di esenzione di pagamento dell’Ici che la Svimez considera regressivo dal punto di vista sociale. Più efficace sarebbe stato rispetto a misure quali la social card, aggiunge il medesimo istituto di ricerca, il varo di provvedimenti mirati, quale, ad esempio, lo sblocco dei crediti d’imposta sugli investimenti al Sud: una dotazione aggiuntiva di due miliardi consentirebbe, ancor oggi, di evitare la caduta degli investimenti nel Sud a seguito della recessione in atto. In assenza di un quadro certo e coerente di misure nazionali, è doveroso sottolineare, tuttavia, che numerosi enti locali, regioni e province, si stanno adoperando per varare misure di sostegno alla domanda aggregata locale. Non tutte simili misure possono essere considerate efficaci o in grado di attenuare effetti recessivi che il governo nazionale non pare valutare nella loro interezza; ma la natura dei provvedimenti adottati è significativo del tipo di timori nutriti. A un estremo si pongono i provvedimenti di natura sociale, volti al sostegno del reddito delle persone escluse dal processo produttivo: giovani inoccupati, precari e cassaintegrati. In direzione simile si muovono i provvedimenti adottati dalla Regione Puglia. Al centro della gamma delle misure troviamo quelli relativi alla struttura finanziaria delle imprese, per attenuare la temuta contrazione dei finanziamenti del settore bancario e l’incremento del costo del denaro. L’ipotesi comune sottesa a simili disposizioni è che la crisi esplicita un problema strutturale dell’universo delle piccole e medie imprese italiane, quale che sia il loro grado di robustezza produttiva: la precarietà dei rapporti con il mondo bancario e l’inesistenza di garanzie di stabili flussi di finanziamento. In coerenza con una simile assunzione, ovviamente non infondata, una panoplia di misure sul potenziamento dei confidi regionali, di accordi con le banche per la continuità dei finanziamenti, di allungamento delle scadenze delle passività delle imprese e di attivazione di canali alternativi quali il venture o l’equity capital. La Lombardia e il Piemonte hanno attivato, per prime, misure in queste direzioni. All’altro capo dello spettro si pongono, infine, le misure che considerano prioritario, per l’attenuazione della crisi, il rilancio del settore più avanzato della propria struttura produttiva, ovvero le imprese a elevata propensione all’attività di ricerca e d’innovazione. Si ritiene che, per quanto la crisi sia inevitabile, essa non debba coinvolgere la crème della propria economia. La Toscana è la regione che ha espresso le più serie preoccupazioni al proposito. E veniamo a noi. È ovvio che la chiave di volta è costituita dal governo regionale delle risorse, ingessato dall’elefantiaco peso oneroso e inefficiente del settore sanitario e dalla scomparsa di una qualunque politica regionale verso la formazione e il mercato del lavoro del competente assessorato. Sarebbe necessario che le risorse disponibili fossero indirizzate non parallelamente, ovvero un po’di sostegno all’esclusione lavorativa e un po’di compensazione degli aggravi finanziari delle imprese, ma congiuntamente: l’impresa campana in crisi di liquidità e in difficoltà cicliche, ma non decotta, dovrebbe essere il destinatario di un pacchetto di misure in cui la fruizione degli incentivi regionali sia subordinata al mantenimento dei livelli di occupazione e alla gestione delle difficoltà congiunturali. Coniugare ciclo e struttura non è semplice ed elettoralmente meno appetibile; ma vale la pena di tentare.

Repubblica NAPOLI, 14 dicembre 2008

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