La crisi globale e i timori del sud

Nulla più di una crisi finanziaria determina attrazione e, al tempo stesso, paura, anche quando la crisi appare lontana per spazio e contiguità economica. L’attrazione dipende dalle caratteristiche, vere o sublimate, dei mercati internazionali dei capitali, che sono associati, di solito, a centri finanziari di disinvolta speculazione, di sofisticati prodotti finanziari e di spericolati banchieri del jet-set. La paura, invece, ha componenti meno immaginifiche perché legata all’istinto dell’esperienza storica: difficilmente una grave recessione economica non è stata accompagnata, o preceduta, da disordini e cedimenti dei mercati finanziari, tanto da determinare il senso comune che simili crisi, non importa attraverso quali canali, finiranno inevitabilmente per avere conseguenze dolorose sul sistema produttivo. Questo è quanto sta avvenendo oggi a seguito del fallimento della Lehman Brothers Holding, una delle banche statunitensi di maggiori dimensioni internazionali: giornalisti e commentatori televisivi si avventurano in temerarie esposizioni di swap, di prodotti derivati e di credit default, quasi che la sola recita del gergo avvalori la fondatezza della crisi prossima ventura. E la conclusione è probabilmente vera: anche economie periferiche come quella del Mezzogiorno di Italia finiranno per subire i contraccolpi di avvenimenti e di istituzioni così lontane da noi. Ma ciò che importa è, per i nostri lettori, analizzare le modalità specifiche del coinvolgimento, senza rimandare a indimostrate assunzioni circa la globalizzazione dell’economia contemporanea. Dunque l’attuale crisi finanziaria, senza eruditi rimandi ad un passato troppo remoto si manifesta a partire dall’agosto dello scorso anno, quando le principali banche centrali, e in primo luogo la Federal Reserve, assunsero la consapevolezza che sul mercato statunitense il settore delle costruzioni e quello immobiliare registravano un’inconfondibile variazione di segno nell’andamento dei prezzi, dopo un decennio di crescita vistosa e ininterrotta. Niente di più, apparentemente, di quello che una volta si chiamava il normale ciclo dell’edilizia. E invece sì: la crisi del mercato dei valori immobiliari determina reazioni a catena, secondo meccanismi tanto affascinanti da comprendere, quanto scellerati da subire. Il boom di questo mercato era stato reso possibile da un vistoso coinvolgimento, diretto e indiretto, del sistemo bancario: diretto tramite l’acquisto di titoli immobiliari garantiti e non garantiti, i tristemente famosi subprime, da garanzie collaterali; indiretto tramite il finanziamento dei partecipanti al gioco al rialzo, fossero essi privati, compagnie assicurative o emittenti di titoli derivati dei prodotti immobiliari. Ancora: i guadagni in conto capitale su questo mercato consentivano l’ulteriore acquisto di azioni nella convinzione, tanto antica quanto infondata, che la bolla speculativa al rialzo sarebbe continuata indefinitamente. Ovviamente non è stato così e gli effetti a domino dell’inversione sono stati drammatici ed estesi, finendo per coinvolgere istituzioni mai toccate così duramente nelle precedenti crisi finanziarie, ovvero il sacrario delle grandi banche internazionali. Nonostante le principali banche centrali, e segnatamente la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca di Inghilterra abbiano e stiano pompando un flusso ininterrotta di liquidità aggiuntiva, la Merryl Linch ha dovuto essere salvata dalla Bank of America, la Bear Stearns dalla JP Morgan, la Lehman Brothers è fallita e la più grossa compagnia assicurativa mondiale, la AIG, è stata di fatto nazionalizzata dal governo americano. Si tratta, in apparenza, di operazioni storicamente non nuove nei mercati finanziari e riconducibili alla funzione di “prestatore di ultima istanza” del banchiere centrale, che dovrebbe fornire liquidità alle banche illiquide ma non insolvibili. Quello che colpisce è la dimensione degli interventi, mai un ammontare di liquidità come quello necessario per salvare la AIG era stato immesso da un banca centrale, e la natura degli interventi stessi, poiché è difficile ritenere che i finanziamenti abbiano riguardato solo istituzioni in crisi di liquidità e non già strutture caratterizzate da attività del tutto prive di valore. Intanto attraversiamo l’Atlantico e torniamo in Europa. In questi giorni assistiamo a numerosissimi interventi, anche prestigiosi, di banchieri che ci illustrano quanto diverso sia il sistema bancario continentale da quello statunitense. Le banche europee, si argomenta, presentano una minore specializzazione funzionale e, dunque, con la sola eccezione del sistema britannico, non dovrebbero subire severi contraccolpi della crisi americana. Le analisi ci confortano anche se i contraccolpi sul mercato azionario dei valori bancari nazionali sono stati notevoli e generalizzati; ci preoccupa non poco, in verità, la presunta trascurabilità degli effetti sul credito nel Mezzogiorno. Il ridimensionamento patrimoniale e dell’attivo indurrà, inevitabilmente, le banche italiane coinvolte nel risiko statunitense a valutare l’atteggiamento verso la clientela più rischiosa e marginale sia per il prezzo sia per la quantità del credito. Poiché rischiosità e marginalità sono, dalle grandi banche, associate tristemente al Mezzogiorno, le previsioni non paiono rosee e il rimpianto di banchieri meno globalizzati e più ruspanti ritorna per incanto.

Repubblica NAPOLI, 19 settembre 2008

This content has been locked. You can no longer post any comment.

Cerca nel sito

Incontri

Fut Rem

 

.

 

Chi è online

 27 visitatori online