L’economia campana cresce ma non dà lavoro

La riproposizione mediatica di una verità risaputa, ma triste, procura sempre dispiacere, non fosse altro che la sua sanzione pubblica. L’Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, ci informa che la Campania, nel 2005, presentava il reddito medio pro-capite più basso tra le regioni meridionali. Fatto pari a cento il valore comunitario, la Campania si attestava a 66,9, al di sotto del valore del Mezzogiorno, il cui indice era pari al 69,6. Triste primato meridionale, in un’Europa così diversificata da presentare una gamma di valori dell’indice da un minimo di 24 nella zona più povera, il nord-est della Romania, al 303 della contea di Londra. Cresciamo poco e, crescendo meno della media comunitaria, le distanze relative dalle regioni europee più avanzate si accrescono. Francamente, sono personalmente incline a non dare a quest’indice, di per sé, un gran significato economico, e non di certo per sminuirlo. La Campania passa, direbbe il buon Manlio Rossi-Doria, dalla polpa all’osso del Mezzogiorno, ma il basso valore del reddito per abitante è solo l’aspetto fenomenico di limiti e di contraddizioni della nostra economia che necessitano di ben altra attenzione. Ma andiamo con calma. La Campania, da un paio d’anni a questa parte, ha notevolmente modificato le sue modalità di crescita, secondo una linea di tendenza che un economista non potrebbe non auspicare. Mentre nel primo quadriennio degli anni Duemila le componenti più dinamiche della domanda aggregata erano costituite dalla spesa pubblica e dagli investimenti, dopo il drammatico annus horribilis del 2005, la più profonda recessione dell’ultimo quindicennio, dal 2006 si è assistito a una ripresa di non trascurabile entità, che ha interessato sia l’andamento degli investimenti, quelli delle grandi imprese, sia le esportazioni, addirittura anche nell’ambitissima area ricca dell’euro. Si sono risvegliate le componenti della domanda ritenute le più progressive, quelle, spieghiamo agli studenti, in grado di incrementare crescita e occupazione nel medio periodo. Così è stato, ma solo per un comparto ristretto della struttura produttiva, poiché una simile rimodellazione della contabilità regionale ha poco interessato il reddito e i consumi campani mentre, paradossalmente, sono aumentate le distanze relative dallo stesso meridione. L’apparente contraddizione è immediatamente spiegabile: il mercato del lavoro campano non partecipa in alcun modo alla dinamica della crescita delle esportazioni e degli investimenti. In altri termini, per essere più chiari: mentre nelle regioni europee, e segnatamente quelle più dinamiche ma meno sviluppate, la crescita modifica i principali indicatori del mercato del lavoro, da noi ciò non succede. Basta qualche cifra, di sicuro più significativa del mero indice del reddito per abitante: dal 2002 al 2007 il tasso di occupazione per la popolazione compresa tra i 15 e i 64 anni, che cercava attivamente lavoro, passa in Campania dal 41,9 per cento al 44,1. Molto meno della metà, in altre parole, di chi cerca attivamente un’occupazione. Nello stesso periodo, le Asturie passano dal 51 al 58, il Peloponneso dal 62 al 65, l’Estremadura dal 50 al 56, ovvero performance di regioni d’eguale, se non minore, forza produttiva della nostra. Il panorama teorico del rapporto tra produzione e occupazione si arricchisce, oggi e grazie alla nostra regione, di un nuovo capitolo: tanti anni fa si insegnava agli studenti che bastava osservare l’andamento della produzione per inferire quello dell’occupazione, poiché un nesso di proporzionalità legava le due variabili; poi ci siamo aggiornati affermando che era necessario valutare la “sensibilità” della domanda di lavoro al crescere della produzione, come ci insegnavano De Michelis e Brunetta, allora economista a tempo pieno. Successivamente abbiamo, con grande esibizione intellettuale e altrettanto sdegno civile spiegato che crescita e ristrutturazione erano compatibili, leggendo Graziani, con una diminuzione dell’occupazione. Ora siamo, direbbe il buon Antonioni, all’incomunicabilità: ciò che accade nel mondo produttivo non tange, nemmeno sfiorandolo, il mercato del lavoro. È certamente vero che esso si muove, nelle sue viscere: aumentano i lavoratori sommersi, i giovani laureati emigrano, i call center si trovano di fronte a un eccesso di offerta di prestazioni, le donne, sconfortate, si ritirano all’inattività dei fornelli. Ma nulla, e meno che mai le politiche regionali, lavorano per massimizzare le speranze di entrare nel salotto buono della crescita della grande impresa o di quella media solida, per formare qualifiche immediatamente occupabili, se gli imprenditori avessero mai la spinta a richiederle. Ci culliamo tra orientamenti professionali e borse per l’impiego, mentre Utrecht, il Brabante e il Wiltshire innovano gli strumenti per l’occupabilità in piena sintonia con le imprese.

Repubblica NAPOLI, 16 febbraio 2008

This content has been locked. You can no longer post any comment.

Cerca nel sito

Incontri

Fut Rem

 

.

 

Chi è online

 30 visitatori online