Morti bianche la Regione sta a guardare

Nelle graduatorie di rischio d’infortunio sul lavoro elaborate dall’Inail per le 103 province italiane, la Provincia di Napoli è in testa: in fatto di rischio di ferirci, o di morire sul lavoro, siamo messi assai male, anche se ci limitiamo solo a considerare l’occupazione ufficiale. Quando leggiamo sulla stampa, con cadenza ormai quotidiana, di lavoratori uccisi da un infortunio sul lavoro nella nostra provincia o regione, il più delle volte si tratta di operai in nero, ovvero di dati che l’Inail non rileva. Considerando insieme le statistiche ufficiali e quello che ci svela la stampa, le morti sul lavoro costituiscono un fenomeno in crescita, il rischio di morte per chi lavora in nero è aumentato, il rischio di morire per un lavoratore napoletano è più alto di un residente in un qualsiasi altro territorio del Paese. Il nostro territorio paga per l’arretratezza e debolezza della sua struttura economica, tant’è che il dato napoletano è il picco di un divario che penalizza tutto il Sud. Ma scontiamo anche un’inadeguatezza dell’intervento pubblico di cui è bene che si incominci a parlare e a chiedere conto. Ha ragione Luciano Gallino nel sostenere che il deficit di civiltà nel governo del mercato del lavoro in Italia non è risolvibile solo correggendo le storture della legge 30. Il lavoro non è merce, e non si può irresponsabilmente negare che sia in atto un processo non neutro di “ri-mercificazione” del lavoro, che va evidentemente contro i canoni di una corretta crescita civile ed economica. Il risultato di una politica del lavoro intesa come perno dei fattori di competitività e di sopravvivenza dell’impresa, votata alla necessità della flessibilità del lavoro, fissata sui funzionamenti del mercato, rapita dall’importanza del matching, modernizzata con le agenzie private e il lavoro in affitto, il risultato di questa politica, organicamente consona alla ri-mercificazione del lavoro, è posto con crudezza disarmante davanti agli occhi di tutti: diminuisce la popolazione attiva, l’occupazione ristagna, il sommerso è sempre lì dov’era, il divario di occupazione tra Nord e Sud si aggrava pesantemente. Sono dati incontrovertibili, che è impossibile negare quando si affrontano questi temi. E su questi dati occorre riflettere. L’operazione che liberalizza e modernizza il lavoro in Italia non tocca i problemi del dualismo territoriale, del dualismo strutturale tra grande e piccola impresa, della segmentazione del mercato del lavoro, del dualismo tra chi sta “dentro” e chi sta “fuori” al modello di welfare, del familismo iperprotettivo nei confronti dei giovani, di un’economia ancorata a legami parentali e clientelari. Questi elementi strutturali di arretratezza restano inalterati, la disoccupazione non diminuisce realmente ma semplicemente affonda nell’inattività e nella cattiva occupazione. Gli sforzi recenti del ministero del Lavoro, nel contrastare il sommerso e gli infortuni, per quanto incisivi, appaiono destinati a disperdersi nel quadro di queste debolezze strutturali che il mercato del lavoro presenta. Non trovano seguito, nella frenesia “liberal-modernizzatrice” nostrana, nemmeno quelle misure elementari di bilanciamento, come ad esempio un adeguato sistema di ammortizzatori sociali, un efficiente apparato amministrativo, una politica di cooperazione tra sistema pubblico e privato dei servizi, un sistema informativo degno di questo nome. E così, mentre proliferano presunti servizi alla persona, il counseling, il training, l’empowerment, l’assesment e via anglicizzando, più realisticamente aspiranti manovali, infermieri, bancari, insegnanti, impiegati, come sempre è stato, ripongono le proprie speranze nella rete dei legami forti (parenti, amici, circuiti della politica locale) magari mediati, anche questi, da una agenzia privata che ha capito come nel business del lavoro la modernità poggi saldamente sulle vecchie miserie. Il regime delle tutele è pertanto garantito essenzialmente dal protezionismo familiare o clientelare. Su questa realtà è necessario soffermarsi. La Regione Campania sembrava decisa ad agire in discontinuità rispetto al passato, tramite un disegno di legge di riordino e di rilancio dell’intervento pubblico nel settore incentrato sull’idea di premiare il lavoro, di riconoscere crediti e risorse alla propensione e alla capacità delle imprese nel fare buona occupazione. Ci sbagliavamo: la legge è ferma in Consiglio, sommersa dalla temperie dei rifiuti. Nel frattempo s’invocano liturgicamente gli ispettori del lavoro, baluardo estremo dell’amministrazione pubblica nel territorio, per colmare un vuoto insanabile. E intanto di lavoro si muore. Il lavoro, così centrale nei fattori di costo delle imprese, e così defilato nella nuova concezione del benessere, il lavoro che le agenzie interinali stanno riducendo a cottimo senza che emerga dal nero nessuno, il lavoro che tutti vediamo, nei cantieri di un’edilizia che a dispetto della modernità continua a galleggiare nella marginalità e a uccidere, il lavoro è sempre più merce.

L’articolo è stato scritto in collaborazione con Susy Veneziano

Repubblica NAPOLI, 21 luglio 2007

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