La memoria perduta della fabbrica di Bagnoli

Si afferma, con un po’ di retorica ma con tanta saggezza, che solo chi ha rispetto per il passato ha consapevolezza e lungimiranza per il proprio futuro. E questo vale non solo per le persone ma anche per le istituzioni e i luoghi in cui esse operano. Bagnoli è, appunto, uno di questi luoghi: percorrendola, meglio se accompagnati da un riff delle chitarre dei Pink Floyd, si percepirà l’aria del passato in una dimensione magica che si percepisce in pochi altri luoghi. Non importa quanto ci sia o, meglio, quanto non ci sia oggi: si evoca, magicamente, quel che vi è stato, come solo i luoghi intrisi di storia e di mistero consentono. Una piccola Stonehenge flegrea, tanto per intenderci. Ma Bagnoli, a differenza dei megaliti della contea del Wiltshire, non evoca solstizi o equinozi dell’età neolitica, quanto piuttosto storie recenti, del secolo precedente, di lavoratori e di fabbrica, di relazioni industriali e di colate, di posti di lavoro e di associazionismo sindacale. È, in poche parole, la storia dell’Italsider, di una fabbrica che ha segnato la storia della zona occidentale di Napoli, spargendo non solo inquinamento ma anche sensibilità sindacale e partecipazione prima che la cultura della camorra invadesse Napoli e il circondario. La dismissione industriale, come accade un po’dovunque, tende per sua natura a rimuovere simili valori.
È successo a Glasgow, dove bande di minorenni si aggirano aggressivamente laddove circolavano gli operai o a Pittsburgh dove giovani scienziati poco sanno dell’acciaieria che colava venti anni fa. Sono le istituzioni e gli uomini delle istituzioni che hanno il compito di evitare un processo di rimozione collettiva; e questo è quanto ci si aspetta dal Comune di Napoli e dalla società, la Bagnolifutura, che ha la mission di operare sul territorio. La restituzione alla città di un’area bonificata e produttivamente riconvertita deve essere tutto uno con la salvaguardia della memoria dell’area: questa, ci aspetteremmo di sentire, è la complessa civiltà dei vecchi modi di produzione, questo è, invece, quanto siamo riusciti a costruire sulle macerie del passato. E della “vecchia civiltà” i cimeli sono tanti: le schede sanitarie dei lavoratori che spesso erano invitati a riprendere il lavoro nonostante la presenza di sintomatologie respiratorie; copie in originale dei piani di potenziamento produttivo dell’acciaieria; epistolari tra dirigenti e i manager delle Partecipazioni statali; dagherrotipi di valore incalcolabile sui primi insediamenti. Tutta la storia di una fabbrica della quale gli operai ebbero un senso d’appartenenza quasi feroce, fin tanto da portarne uno, ci si consentirà di mantenere l’anonimato, a condurre la moglie, sotto i bombardamenti alleati, a partorire nel grande padiglione e darle, straordinariamente, il nome di Ilva. Il rapporto simbiotico con la fabbrica doveva essere tale da considerarla una nicchia sicura, nonostante essa fosse in realtà l’obiettivo strategico delle bombe. Salvaguardare simile memoria non ha dunque un mero valore rievocativo; il passato in questo caso diviene testimonianza di una speranza, e di un progetto di inclusione muovendo dalla dismissione e dalle frammentazioni sociali che essa inevitabilmente crea. Così come la memoria della deindustrializzazione britannica e del disagio della comunità lavoratrice sono costituiti dagli splendidi affreschi di Ken Loach, per Bagnoli tutto ciò avrebbe dovuto essere rappresentato da una fondazione che riassumesse in sé compiti di conservazione museale, di soggetto culturale, di luogo di aggregazione per gli abitanti della zona. Poco o nulla sembra muoversi in questa direzione: le diatribe sull’autonomia della Bagnolifutura, il contenzioso sul trasferimento del materiale da sversare, il prevalere di una cultura gestionale nei fatti votata alla mediazione politica, tutto ciò fa sì che l’immobilismo si estenda oltre l’incapacità progettuale sul futuro sino alla perdita del ricordo.

Repubblica NAPOLI, 16 ottobre 2007

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