Perché Napoli è diventata una città cara

Nei giorni passati “Repubblica Napoli” ha condotto un’inchiesta sulla dinamica dei prezzi in Campania che conferma e quantifica alcune delle più marcate distorsioni inflazionistiche della nostra regione. Sinteticamente, dall’indagine emerge che il paniere dei beni di prima necessità, e specialmente i prodotti alimentari, ha costi medi superiori in Campania, costi che la grande distribuzione non riesce a compensare neppure parzialmente. Parrebbe che supermercati e ipermercati, piuttosto che tendere a una razionalizzazione della rete commerciale e a un incremento delle quote tramite l’espulsione dal mercato di parte del piccolo commercio al dettaglio inefficiente, privilegino l’obiettivo della rendita di posizione derivante dai minori costi. I fenomeni che l’inchiesta evidenzia sono, oramai, radicati nel tempo per poter essere considerati come distorsioni di breve periodo e rimandano a una tendenza strutturale dell’inflazione campana così riassumibile: mentre in passato la nostra regione ha presentato una dinamica dei prezzi relativamente moderata rispetto alla media nazionale, tanto da far considerare, ad esempio, Napoli città “a buon mercato”, nell’attuale decennio la tendenza si inverte e la Campania diventa costosa e penalizzante per i consumatori. Il discrimine tra le due fasi è costituito dall’avvento dell’euro, non tanto perché esso stesso sia stato causa d’inflazione: l’euro, piuttosto, ha rappresentato l’occasione tramite la quale larga parte della distribuzione commerciale, e segnatamente quella di piccole e medie dimensioni, è riuscita a modificare la distribuzione del reddito tra le parti sociali. Una parte non irrilevante della società italiana, bottegai, commercianti, artigiani, piccoli imprenditori aspirava, all’inizio del decennio, a un incremento della propria quota di prodotto: e tale incremento poteva essere ottenuto solo aumentando il prezzo di vendita, sperando che ad aumentare fossero solo i prezzi dei propri beni e servizi. L’inflazione, si sa, non è un fenomeno neutrale: se tutto, introiti ed esborsi, crescesse della medesima percentuale, la posizione reale di ciascuno rimarrebbe inalterata, ma la società si ritroverebbe con un livello generale dei prezzi più alto. Quindi l’aumento dei prezzi da parte di ciascuno continua fin tanto che esso sarà “accettato” dalla collettività e non innescherà altri incrementi di prezzo di “difesa”. Quello che nei casi di iper-inflazione avviene nei paesi sudamericani in maniera eclatante e drammatica, in Italia si sta verificando, da quasi un quinquennio, in maniera strisciante, continua e capillare. Il lettore intuirà che questa tendenza generale non si presenta uniforme per territorio e per prodotto, ma la capacità di praticare permanentemente prezzi più elevati dipenderà da una serie di fattori concomitanti: la “domanda di inflazione” dei piccoli bottegai dovrà trovare riscontro in una “offerta di inflazione”, ovvero in fattori permissivi, quali l’inefficienza della pubblica amministrazione nel controllo dei prezzi al dettaglio, le strategie della grande distribuzione, la capacità dei consumatori di modificare i siti di acquisto. E questo schema, apparentemente banale, ci può forse aiutare a capire il paradosso dell’ingresso, in meno di un decennio, della nostra regione nella hit parade dell’inflazione nazionale. A fronte di una domanda di inflazione abbastanza in linea con quella del resto del paese, la Campania ha brillato, e brilla, per l’offerta di inflazione, ovvero per vastità degli effetti permissivi. Di quelle variabili, in altre parole, che alimentano o che consentono l’aumento dei prezzi. Innanzitutto, per amore di verità, la capacità delle istituzioni locali di calmierare la piccola distribuzione. Emblematicamente, un assessore della vecchia giunta del Comune di Napoli ci impartiva fantasiose lezioni di economia, asserendo che l’apparente incremento dei prezzi fosse dovuto al basso prezzo iniziale delle merci in città. Ancora, la media distribuzione commerciale di super e ipermercati non nasce, come si dimentica spesso, solo dalle grandi reti nazionali e internazionali, ma anche da capitali locali di dubbia provenienza. L’hinterland napoletano pullula di mananger della distribuzione formatisi a Poggioreale. Aspettarsi che le politiche di prezzo di tali centri tendano, in maniera lungimirante, alla profittabilità di medio periodo, escludendo dal mercato innanzitutto i piccoli bottegai inefficienti, e non già rastrellando profitti immediati, sarebbe come sperare di ritrovare, un giorno, gli attuali venditori di telefonini e di jeans trasformati in librai. Se si aggiunge che tariffe bancarie, assicurative e dei trasporti risultano tra le più elevate a livello nazionale si capisce il boom dei vecchi, urlanti mercatini rionali. Keynes ricordava, nel 1919, una frase di Lenin secondo il quale il modo migliore per distruggere l’economia di mercato fosse la perdita di potere di acquisto della moneta; noi, più modestamente nel nostro piccolo, ci limitiamo a picconare la fiducia delle famiglie.

Repubblica NAPOLI, 17 settembre 2006

This content has been locked. You can no longer post any comment.

Cerca nel sito

Incontri

Fut Rem

 

.

 

Chi è online

 17 visitatori online