Aspettando la banca del Sud

Offuscata, dopo il passaggio all’opposizione del suo principale sostenitore, il già ministro Tremonti, la proposta di costituzione di una nuova banca per il Mezzogiorno è ritornata di recente nel novero delle proposte di irrobustimento della struttura finanziaria meridionale. Quali che siano i contenuti con cui tale proposta è di solito articolata riguardo proprietà, natura giuridica e funzioni operative, la riproposizione di un soggetto creditizio “meridionale” nasce dal riscontro di un problema annoso e ricorrente: la strutturale inadeguatezza dell’offerta di credito e di finanza per le imprese operanti nelle regioni meridionali. E tale constatazione si accompagna a due ipotesi, non sempre, esplicitate, sulle relazioni tra finanza e sviluppo nel Mezzogiorno. La prima sottende un giudizio negativo sulla possibilità che gli attuali gruppi bancari, nazionali e internazionali, operanti in loco, siano in grado di ovviare a perversioni oramai radicate; la seconda concerne l’intuizione che relazioni meno patologiche tra banca e impresa possano aiutare la crescita delle imprese meridionali. È difficile non convenire con l’assunto di base della discussione, ovvero la strutturale inadeguatezza dell’offerta di strumenti finanziari ai fragili e incerti fabbisogni della domanda locale. E, paradossalmente, tale inadeguatezza è andata acuendosi nel corso dell’ultimo decennio, quasi che la rivoluzione copernicana del fare banca nel contesto dell’unità monetaria europea abbia relegato ancor più in secondo piano le esigenze delle regioni meno sviluppate. Esistono, tuttavia, specificità nazionali; limiti, cioè, che si manifestano a seguito delle modalità che hanno caratterizzato i grandi gruppi bancari italiani in questa mutazione. Oggi sono più chiare le modalità peculiari delle trasformazioni della nostra finanza: incentivate da un processo che a livello europeo proseguiva inesorabilmente, le banche italiane hanno innescato tendenze alla fusione, con operatori di pari livello, e all’acquisizione, di aziende di credito minori, che non ha eguali nella storia finanziaria del nostro paese. Ma così come accade in molta della storia della nostra finanza, la rivoluzione è stata parziale, spingendo i grossi gruppi bancari italiani in una nicchia intermedia, nella quale è difficile da un lato competere con i colossi europei e dall’altro occuparsi sistematicamente dei piccoli operatori. La parzialità di tale mutazione è resa evidente dalle modalità della ristrutturazione creditizia: un numero elevatissimo, oltre 500 operazioni di concentrazione nell’ultimo decennio, ma un debole perseguimento dell’efficienza. Come sottolinea un recentissimo, impietoso rapporto del Fondo monetario internazionale la ristrutturazione delle banche italiane ha, di fatto, eliminato i piccoli operatori ma non ha creato gruppi pari a quelli europei; i profitti sono cresciuti ma non sono stati contenuti i costi: dunque il banking in Italia è ancora più costoso della media comunitaria; le operazioni più profittevoli sono ancora gli impieghi, a differenza delle altre banche europee le cui poste attive di bilancio privilegiano attività più innovative. Un limbo di concorrenza monopolistica: abbastanza grandi da non occuparsi del rapporto tradizionale con la piccola impresa, ma non tanto da insidiare la finanza europea. L’esito sul territorio, per quanto ci riguarda, è un sistema creditizio subalterno alla “casa madre” e dunque acefalo, privo di capacità strategiche e decisionali nella sfera territoriale di competenza. Quanto queste prerogative siano importanti lo ricorda l’esperienza tedesca, laddove i grossi gruppi si sono avvantaggiati delle piccole banche o casse di risparmio specializzate nel fidelizzare e nel sostenere una miriade di piccole imprese. E tra le cause di questa mutazione incompiuta, oltre che la modestia dei banchieri nostrani, vanno di certo annoverate le scelte di politica creditizia della nostra banca centrale, o meglio del nostro passato governatore Fazio, fervido assertore dei “campioni nazionali”, quasi che il loro smanioso trangugiare le piccole banche fosse, di per sé, un elemento di maggiore efficienza e competitività. Ora possiamo tornare a noi, ovvero alla banca nel Mezzogiorno e per il Mezzogiorno: riconversione all’italiana, acefalia, direttive della Banca di Italia paiono essere stati i maggiori ostacoli a una ridefinizione fisiologica dell’offerta di finanza nel meridione. Un nuovo soggetto creditizio, pubblico, privato o a partecipazione mista, dovrebbe ipotizzare il come ovviare a queste incongruenze. La finanza è affascinante, tant’è che un personaggio di George Bernard Shaw impedisce alla figlia Cecilia di occuparsi di finanza e di valuta perché si tratterebbe di un’attività “troppo eccitante”. Restiamo, dunque, in sincera attesa di nuove riproposizioni della leggendaria nuova banca. Al momento ci si consenta un cauto scetticismo.

Repubblica NAPOLI, 04 marzo 2007

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