La spesa cresce ma il motivo non si sa

Una discussione sull’andamento dei prezzi nella città di Napoli rischia di assumere toni paradossali e vittimistici. Il paradosso nasce da un’inconfutabile discrepanza tra le cifre ufficiali sull’andamento dell’inflazione e la percezione quotidiana delle famiglie sull’effettivo incremento dei prezzi. Il vittimismo è una diretta conseguenza di quella percezione: così come in tutte quelle circostanze in cui l’elemento soggettivo è validato ed esaltato dalla pochezza delle statistiche, il passo verso l’esagerazione è inevitabile, quasi che ci trovassimo alla vigilia di un fenomeno iper-inflazionsitico di tipo sudamericano o da Repubblica  Napoli, di Weimar. La realtà è, per fortuna, meno minacciosa ma, ahimè, più contigua alle percezioni soggettive dei consumatori che alla fredda parata delle cifre disponibili. Ma, per dimostrarlo, andiamo con ordine. Nel corso del secondo dopoguerra la città di Napoli, anche nei momenti di maggiore esplosione del livello dei prezzi come alla fine degli anni Quaranta o degli anni Sessanta, manteneva meccanismi di parziale impermeabilizzazione al depauperamento del potere d’acquisto della moneta. Tali calmieri, senza scomodare la sterminata letteratura sull’espansione del mercato di Forcella o dei prodotti “americani”, erano espressione dell’arretratezza dell’economia partenopea. Soprattutto per i prodotti alimentari e per l’abbigliamento, il reticolo di mercatini, di relazioni commerciali informali, di zone tradizionalmente elette ad aree di convenienza, Piazza Mercato su tutte, assicuravano la possibilità di immunizzarsi dalle ventate inflazionistiche: in fondo un basso, il pane, la pasta ed un jeans erano alla portata di tutti. Si potrà discettare quanto si vuole: vero è che quella organizzazione mercantile, disgraziata e preda di una cinematografia ripetitiva, assicurava capacità di resistenza alle offensive del mercato. Venuta meno, il trittico della sopravvivenza, ovvero “casa-alimentari-vestiario” è stato inevitabilmente e progressivamente assoggettato alle regole, si fa per dire, dell’economia ufficiale. Dapprima con le infauste speculazioni innescate nella conversione della lira in euro e, successivamente, a cadenze semestrali, ovvero a Natale e alla conclusione delle ferie estive, il livello dei prezzi registra “assestamenti al rialzo” motivati con le più fantasiose delle giustificazioni: la guerra del petrolio, gli squilibri finanziari delle aziende di trasporto, l’incremento del prezzo del grano, l’appesantimento dei costi della distribuzione commerciale. Fenomeni, tutti, di cui si parla abbondantemente sui giornali e nelle televisioni, e che emergono dalla testimonianze degli esperti e delle persone comuni di volta in volta intervistate. Fenomeni che, singolarmente, si evidenziano o poco prima della riscossione della tredicesima, o quando, godendo dell’ultimo sole d’agosto, si comincia a digerire l’indecente aumento del prezzo dell’ombrellone o della discesa a mare. Tornati a casa le pulsioni inflazionistiche nel trittico tornano a manifestarsi: quest’anno tocca ai beni alimentari ed, in particolare, a quei prodotti, pane e pasta, che in passato erano i meno soggetti, nel reticolo commerciale partenopeo, agli incrementi di prezzo. Simultaneamente le fonti ufficiali ci tranquillizzano affermando che il tasso medio d’inflazione non cresce per la diminuzione relativa del prezzo dei cellulari e dei televisori a cristalli liquidi. È, di certo, una buona notizia: Napoli è di certo una città dai consumi “dualistici”, in cui il bene voluttuario diviene sempre più di prima necessità. Ma fintanto che l’innovazione tecnologica non renderà simili beni commestibili, non siamo certi che la massaia napoletana ne risulterà soddisfatta. E se, ancora, la nostra massaia dovrà comprare i libri scolastici ai figli, rinnovare l’abbonamento al trasporto pubblico o, peggio, riscontrare che l’assicurazione auto è scaduta o che il contratto a tasso variabile sul credito erogato dalla banca impone una rata più onerosa, allora la compensazione determinata dal minor prezzo del televisore a 40 pollici risulterà vaga e, francamente, provocatoria. È intuibile, stando così le cose, quanto una parte dell’origine di tali fenomeni non ha che fare con le istituzioni napoletane e rimandi alle titubanze della politica economica nazionale verso le pressioni e gli interessi di produttori di merci e di servizi. Certo è che per la quota di responsabilità degli amministratori locali, non pare che essi siano assillati dagli immotivati incrementi dei prezzi di mercatini e di esercizi commerciali. Ma, se dovessero preoccuparsene, non vorremmo che, così come nel caso dei parcheggiatori abusivi, decidano di multare quelle massaie napoletane che dovessero acquistare pane e verdura ingiustificatamente rincarati.

Repubblica NAPOLI, 13 settembre 2007

 

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