Banco di Napoli quante illusioni

Campania e sistema bancario costituiscono, insieme, uno splendido esempio di glocalismo, ovvero di sintesi di cultura locale e di globalizzazione finanziaria. E la sintesi di questi due mondi apparentemente inconciliabili è costituita dal Banco di Napoli e dalle sue sciagurate vicende, tanto paradigmatiche da non sfigurare nella storia della finanza del secolo scorso à la Galbraith o à la Kindleberger. Ci eravamo da poco abituati alla dipartita del Banco, che due avvenimenti ce la riportano in mente, subito dopo il compimento di un faticoso processo d’elaborazione del lutto: il primo è costituito dalla presentazione del nuovo marchio “Banco di Napoli” da parte dell’assetto proprietario d’Intesa San Paolo. Il secondo è la meritoria pubblicazione da parte di Nico De Ianni di un volume che ricostruisce le vicende della banca partenopea dall’inizio degli anni ‘90 fino al 2002 (presentazione oggi alle 10 nella ex facoltà di Economia in via Partenope, 36). Cominciamo dal primo avvenimento: il top management del gruppo bancario Intesa-San Paolo ha reso pubblica, in pompa magna, la decisione di rilanciare, a differenza di quanto era avvenuto subito dopo l’annessione del Banco al San Paolo-Imi, l’azione del Banco in Campania e nel Mezzogiorno. Si ritorna all’antica denominazione, con la promessa di rafforzare le strutture operative sul territorio. Una buona notizia, di sicuro, la cui effettiva portata deve essere vagliata, tuttavia, alla luce di quanto alla banca partenopea è avvenuto in un recente passato; e forse proprio il libro di De Ianni può aiutarci a capire quanto non va fatto o su quanto non ci si possa illudere. Un primo dato emerge con chiarezza: dall’inizio degli anni Novanta, a seguito di un crescente susseguirsi di concentrazioni bancarie e di disposizioni normative, è divenuto impensabile che una banca possa sviluppare la propria attività di finanziamento alla struttura produttiva in assenza di una straordinaria solidità patrimoniale. L’esperienza dell’ultimo grand commis locale del Banco, Ferdinando Ventriglia, volse al termine non tanto per la disinvoltura della sua strategia sui mercati locale ed estero o per il grado di permeabilità alla mediazione politica, quanto perché il suo Banco era patrimonialmente poco solido e non poté bastare un’ardita, disperata cosmesi di bilancio. Il secondo dato concerne la fragilità e la scarsa lungimiranza della grossa, si fa per dire, imprenditoria campana. Tutti i momenti di svolta della vita del Banco di Napoli, dalla legge Amato-Carli in avanti, passando per l’acquisizione d’Ina-Bnl dapprima e di San Paolo-Imi poi, hanno visto nostri capitani d’impresa sistematicamente al traino delle decisioni prese dal mondo della finanza, salvo pentirsi in seguito per aver avallato decisioni strategicamente ostili al tessuto produttivo locale. Non che essi fossero in cattiva compagnia: la Regione Campania, tanto per non fare nomi, non ha mai preso in considerazione, anche quando era ancora tecnicamente possibile, la possibilità di acquisire una quota di minoranza nel Banco o di esercitare una qualche forma di moral suasion affinché una qualche cordata indigena riuscisse a spuntare una poltrona in consiglio d’amministrazione. La terza costante è costituita, c’insegna De Ianni, dal grado di presenza delle strutture responsabili della banca sul territorio. Una struttura acefala è portata, per sua intrinseca propensione, a privilegiare investimenti redditizi laddove si presentano, a prescindere da motivazioni territoriali. Una richiesta di finanziamento per un investimento di un’impresa veneta a Timisoara, in Romania, ha di certo un rendimento prospettico maggiore di un produttore campano di mozzarelle. Solidità patrimoniale, interlocuzione imprenditoriale e presenza sul territorio sono i prerequisiti affinché un progetto di bancarizzazione territoriale sia, almeno in linea di principio, oggi attendibile nel Mezzogiorno. E se sul primo requisito l’iniziativa Intesa-San Paolo sul nuovo Banco pare ovviamente affidabile e sul secondo è bene metterci una pietra sopra, ci si consenta di esprimere qualche fondato dubbio sul terzo, ovvero sul grado di responsabilizzazione locale. È certamente vero che la sbornia delle attività off-shore si è parzialmente smaltita, che gli impieghi alla media clientela costituiscono ancora un rifugio sicuro, che Intesa pare avere intenzioni meno centralizzatrici che Imi-San Paolo, ma presagire che sia iniziata una nuova stagione del credito dalle nostre parti, come qualche addetto ai lavori va sbilanciandosi, pare un tantino illusorio. E forse un po’di storia è dalla nostra parte.

Repubblica NAPOLI, 16 novembre 2007

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