Dove nasce la crisi economica della città

La decadenza morale e l’agonia istituzionale della metropoli napoletana vengono sovente riportate a fattori concomitanti e spesso interagenti. La storia segue un leitmotiv del tipo: il ridimensionamento drastico delle politiche di sostegno verso le regioni meridionali e la crisi del settore manifatturiero locale hanno innescato una spirale di stagnazione, terreno fertile per il proliferare di attività illegali. Ancora: la mancanza di possibilità di lavoro nell’economia illegale avrebbe spinto centinaia di giovani verso attività criminali e remunerative. Ovviamente criminalità e recessione originerebbero un circolo vizioso, secondo il quale esse si alimenterebbero a vicenda. L’immagine che se ne trae da questa ricostruzione è quella di una cittadella legale e laboriosa, condannata, al suo interno, da una malvagia politica di tagli del governo nazionale e accerchiata, al di là del fossato e del ponte levatoio, dalla barbarie della criminalità e della camorra. Il fossato è un discrimine manicheo: da qui i buoni, di là i cattivi; nella cittadella industriosità, tutto intorno sregolatezza e malcostume. Forse l’immagine della roccaforte ci aiuterà a dormire; certo non a capire quanto va succedendo nella società napoletana e dei suoi dintorni metropolitani. Sono oramai venute meno le certezze dei circuiti economici che si erano strutturati in un passato nemmeno troppo lontano. Allora, più o meno sino a una ventina di anni fa, redditi e formazione di ricchezza seguivano dei percorsi facilmente ricostruibili: il denaro pubblico alimentava, più o meno efficientemente ed equamente, imprese di svariate dimensioni; le attività produttive, a loro volta, risorse che, sotto forma di redditi, rifluivano nel settore del consumo; le attività criminali, esauritosi il business del contrabbando di sigarette, esordivano nel mercato dell’eroina. Parallelamente, i costruttori, portato a compimento il sacco di Napoli, rivolgevano le proprie attenzioni alla periferia. Non era, questo, un circuito progressivo; ce ne accorgiamo oggi. Tuttavia esso presentava una qualche paradossale coerenza determinata dall’interdipendenza: si poteva essere sicuri che l’andamento dei finanziamenti pubblici e il ciclo dell’attività produttiva avrebbe, prima o poi, influenzato consumatori, commercio, palazzinari, attività professionali e, forse anche, il consumo di eroina da esclusione sociale. Allora la cittadella della produzione e della legalità manteneva, anche se con qualche abbassamento del ponte levatoio, una propria fisionomia costitutiva. Questo mondo, oggi, è svanito e tre diversi circuiti economici si sono sviluppati, emancipandosi, in parte, l’uno dall’altro. Il primo è costituito dal circuito innescato dal finanziamento pubblico. Che esso sia regionale, nazionale o comunitario poco importa: scomparsa l’industria, enti privati e parapubblici, di consulenza o di formazione, di servizi avanzati o del commercio, si affannano a produrre richieste di sussidi inclusi in tutte le voci di tutti gli acronimi: Pit, Por, Pun. Le richieste devono debitamente includere neologismi quali implementare e supportare, sostantivi quali sinergia e prefissi quali eco, per eco-sistema, eco-compatibilità ed eco-sviluppo. Il lettore intuirà, di certo, quanti irrilevanti siano le ricadute, in gergo economico si parlerebbe del moltiplicatore, sul tessuto produttivo complessivo di queste erogazioni. Di certo foraggia un ceto sociale molto incline alle relazioni sociali e poco all’intrapresa. Un secondo circuito è costituito dal magma del business del divertimento. Si tratta di un settore crescente, esente da crisi congiunturali e vestale della maggior parte dei disvalori e della violenza nella nostra città. Annovera al suo interno una molteplicità di produzioni e di erogazioni, si fa per dire, di servizi: jeanserie, vendita di telefonini, pub, agenzie di viaggio. La caratteristica di questo settore è l’incremento esponenziale del giro di affari, la precarietà dell’occupazione, il secondo lavoro di dipendenti pubblici, la commistione irreversibile con il capitale camorrista, la totale inosservanza di tutte le regole e le norme del vivere civile: i giovani barbari della movida non sono che l’aspetto più appariscente di interessi che crescono indisturbati e, dunque, feroci oppositori di ogni minimo atto di ri-legalizzazione. E infine il terzo silente, malinconico circuito. È quello di chi produce all’interno di regole, rispettate per etica, più che per cogenza legale: i pochi operai rimasti, i pensionati e i lavoratori dipendenti, e qualche servitore dello Stato. La forza che derivava loro dalla fruizione di un “posto fisso” o dal prestigio sociale è sempre più indebolita dal ridimensionamento dei redditi, dal disinteresse della politica, dallo scippo dell’orologio che servirà per l’acquisto di un cellulare di ultima generazione o di una droga da inclusione sociale. Criminalità e apparente penuria di finanziamenti non sono, dunque, la causa della crisi della nostra metropoli, quanto piuttosto le modalità con le quali il nuovo perverso intreccio tra parte del settore pubblico e parte di quello privato sta tentando di risolverla.

Repubblica NAPOLI, 27 settembre 2006

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