Piccolo non è bello

Le Regioni meridionali si apprestano a varare una nuova consiliatura nella quale le novità dello scenario economico si accompagneranno a difficoltà ricorrenti della storia recente. Ricorrente è, in primo luogo, la scarsa considerazione che esso gode nel quadro delle priorità della politica economica nazionale. La crisi dell’attuale governo non promette nulla di buono, quale che sia il suo esito. Tanto nell’ipotesi di elezioni politiche anticipate, quanto nel caso che il tramonto dello straccione liberismo nostrano sia rinviato di un anno, assisteremo al consueto ciclo politico o elettorale della spesa pubblica, secondo cui considerazioni di voto saranno preminenti rispetto a efficienza e a equità sociale. Il peggio del keynesismo all’italiana. Se in questa cornice poco rosea, le Regioni del Mezzogiorno vorranno impostare una strategia d’intervento che abbia probabilità di funzionare nel medio periodo, è bene che taluni assunti siano tenuti ben presenti. Il primo: la questione meridionale, ovvero l’incapacità di determinare, endogenamente, uno sviluppo economico autonomo che consenta livelli di occupazione accettabili non è affatto scomparsa. Episodi fin troppo enfatizzati di sviluppo locale non esimono le autorità regionali dal considerare essi stessi soggetti responsabili della crescita e non già meri certificatori di singoli, modesti fenomeni di effervescenza imprenditoriale. Inseguire le chimere del mercato coniugato con piccola impresa, turismo e arte e non pensare alle leve potenziali di sviluppo dell’industria significa condannare il Mezzogiorno alla stagnazione di lungo periodo. Il secondo assunto riguarda la gestione delle risorse regionali: le Regioni meridionali si presentano oggi politicamente omogenee con un bilancio complessivo, già per il prossimo biennio, pari alle risorse a esse destinabili con una legge finanziaria. Sarebbe poco ragionevole se ciascuna di esse tentasse di replicare al proprio interno un armamentario di strumenti, un utilizzo dei fondi comunitari disponibili e una fissazione di obiettivi del tutto simile a quelli delle Regioni limitrofe. Non avrebbe senso, ad esempio, una molteplicità di fissazione di sistemi locali di sviluppo in settori come l’abbigliamento, il tessile, nei quali la proliferazione di piccole imprese si accompagna a strutture dimensionale che, di rado, superano i due addetti. Emblematico è il caso della collocazione internazionale delle Regioni meridionali. Il Mezzogiorno, e la Campania in particolar modo, registrano, in questo momento, difficoltà su due fronti strategici. Il primo riguarda l’andamento delle esportazioni: le rilevazioni più aggiornate, ad esempio quelle effettuate dall’Ufficio studi di Confindustria, testimoniano di una crescente carenza di competitività delle merci meridionali non solo verso i mercati del dollaro, sul quale l’euro registra un patologico apprezzamento, ma anche verso l’area europea, nei confronti della quale è penalizzante il differenziale di inflazione. Costante e modesta appare, invece, la propensione all’esportazione verso quei paesi del Mediterraneo storicamente collegati con il Mezzogiorno. Ancora: i flussi di investimento estero produttivi verso il meridione si sono, di fatto, arrestati. Ipotizzare la nascita di un’Agenzia internazionale delle Regioni del Mezzogiorno per affrontare simili problemi è. forse, più saggio che rincorrere, separatamente, le chimere dello sviluppo locale a ogni costo.

Repubblica NAPOLI, 18 aprile 2005

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