Se i consumatori diventano pessimisti

La rilevanza delle aspettative è, oramai, patrimonio comune di qualunque indagine che miri al fare il punto sul comportamento delle imprese o dei consumatori: sin da quando Keynes, oltre settanta anni addietro, stabilì una stretta correlazione tra l’evoluzione della disoccupazione e gli “spiriti animali” degli imprenditori, ovvero l’aspettativa soggettiva, non riconducibile ad alcuna determinazione quantitativa, degli andamenti correnti e futuri del mercato. Ma le aspettative sono una variabile decisiva per le previsioni future, solo se trattate con il dovuto rigore: è intuibile quanto la sua natura esclusivamente qualitativa possa dar adito a “contrabbando” nella ricostruzione della realtà. E l’Unioncamere della Campania ha deciso, meritoriamente, di ricostruire la situazione del sistema produttivo regionale, muovendo dalle percezioni che caratterizzano, oggi, il comportamento di imprese e di famiglie sul territorio. Ne risulta un quadro dell’economia campana poco agiografico, estraneo alle parvenze di neutralità e di asetticità che contraddistinguono le indagini della Banca d’Italia, ma che si misura coraggiosamente con fenomeni non riconducibili a dimensioni univoche ma oggetto di disputa. Da qui una fotografia della Campania che desta preoccupazione e che fa, di fatto, piazza pulita d’interpretazioni parziali o faziose. Proviamo a sintetizzarla: gli operatori campani sono caratterizzati da profondo pessimismo e sfiducia sull’evoluzione del quadro economico nazionale e regionale. Il pessimismo non è omogeneo per categoria e per territorio. Le imprese, in prevalenza, ritengono che la dimensione ciclica sia stata, fin qui, tanto negativa da far supporre che “a nuttata” sia passata e che si stia avvicinando il punto d’inversione inferiore del ciclo: è di fatto, un auspicio, come saggiamente rileva il Rapporto, poiché l’aspirazione non determina decisioni di nuovi investimenti, stante il basso grado d’utilizzo della capacità produttiva: ma quel che è più rilevante è che il pessimismo cresce al diminuire della dimensione d’impresa e al crescere della distanza dalle grandi aree metropolitane: l’idealtipo dell’imprenditore campano in difficoltà e con spiriti animali depressi è quello di un operatore che agisce in provincia, ha dimensioni d’impresa tra cinque e dieci addetti, opera nel settore manifatturiero o dei servizi, ha scarsa fiducia nella capacità programmatoria delle istituzioni locali e non intende effettuare investimenti nel prossimo semestre. Un quadro realistico, dunque, poco incline all’accoglimento del mix di luci e di ombre dell’economia regionale tanto cara ai responsabili regionali e che, in concreto, invia un messaggio assai poco trascurabile: quale che sia il livello complessivo di tenuta della regione alla recessione determinata da un’irresponsabile assenza di politica meridionalistica, il vero banco di prova del governo regionale è costituito dalla ripresa della fiducia della piccola e media impresa periferica. Ma se i giudizi degli imprenditori sono improntati alla “necessità” dell’ottimismo, quelli dei consumatori sembrerebbero improntati al convincimento che “al peggio non vi è mai fine”. Facciamo un breve passo in dietro: da qualche mese, in palese contraddizione con le valutazioni fornite dall’Eurispes e dalle organizzazioni dei consumatori, è in corso una serrata campagna mediatica tesa al convincimento che il tasso d’inflazione nell’economia italiana sia, oggi, il più basso dell’ultimo quinquennio, che alle massaie basta aggirarsi più assennatamente tra i mercati e che il tasso di disoccupazione cali progressivamente e inesorabilmente. La fallacia di questa ricostruzione è evidente quanto risibile e preoccupa che l’Istat calpesti i propri compiti istituzionali per mettersi smaccatamente al servigio dell’esecutivo. Il rapporto Unioncamere fornisce una lettura assai meno apologetica: il livello di crescita dei prezzi è avvertito ancora come positivo, specie nei settori dei trasporti e di prima necessità; l’inflazione attesa, che da sola è causa di non trascurabili effetti recessivi, non si attenua; nove elementi su dieci della famiglia che entrano sul mercato del lavoro in cerca d’occupazione rimangono frustrati. Per ultimo: il motivo di maggiore soddisfazione per il “campano” è costituito dall’ottenimento di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Un’inequivocabile, ulteriore smentita di quelle ricostruzioni dell’adesione al modello di mobilità del lavoro, del giovane, laureato o non, che coniuga allegramente interinalità, formazione e precarietà di vita, quasi a simbolo della vetustà del posto fisso.

Repubblica NAPOLI, 28 febbraio 2005

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