Scaricabarile in finanziaria

La legge finanziaria per il 2005 sta suscitando, da un paio di settimane a questa parte, una quantità innumerevole di discussioni che possono essere ricondotte a tre tematiche precipue. La prima: il governo si limita a promettere sangue, sudore e lacrime; la seconda: la manovra prevista dalla legge è inefficace sul piano della stabilità finanziaria poiché non consente un effettivo rientro nei limiti dei valori del rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo, così com’è previsto dal patto di stabilità europeo. Infine: l’economia meridionale è penalizzata da una manovra che taglia risorse a enti e istituzioni locali. Le critiche risultano, in linea di principio, corrette ma le motivazioni non paiono sempre appropriate e, a nostro avviso, andrebbero maggiormente sostanziate. Sin dall’inizio degli anni Novanta la Finanziaria ha sempre di più assunto il ruolo di documento di stabilizzazione finanziaria del bilancio pubblico più che di dichiarazione d’intenti sulle strategie d’intervento dell’operatore pubblico. Dunque manovre di maggiore severità si sono succedute in questi lustri, a partire dal drammatico piano di risanamento del 1992 del governo Amato. La società italiana, e ancor più quella meridionale, è, dunque, assuefatta all’idea che, insieme alle foglie, in autunno piovono balzelli, accise e rincari pubblici. Quel che colpisce nella manovra di quest’anno, non più violenta di tante altre passate, è l’assoluta mancanza di specificazione sugli obiettivi della stabilizzazione, che la società italiana sarebbe chiamata a valutare e, forse, a condividere. Manca un qualsiasi riferimento agli effetti sulla capacità di crescita di medio periodo dell’economia italiana e sono richiesti sacrifici per il rispetto di un corsetto insano, il Patto di Stabilità, che il governo stesso ha più volte dimostrato di non gradire. Non si capisce perché imprese e lavoratori dovrebbero identificarsi in un obiettivo che l’esecutivo stesso considera come un vincolo irragionevole alla propria pratica di governo. Il rimando agli sforamenti del Patto esperimentati in Francia e Germania è del tutto fuori luogo, poiché in quei paesi l’incremento del disavanzo pubblico è avvenuto per l’agire stabilizzante e deliberato di una maggiore spesa pubblica e di una minore tassazione a seguito della recessione dell’economia europea. In Italia nulla di tutto ciò sta accadendo: nel peggiore dei mondi possibili lo Stato, paradossalmente, stenta a contenere il rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto nazionale e contemporaneamente taglia drasticamente gli stabilizzatori sociali nella fase ciclica più negativa dell’ultimo decennio. Avviene tutto ciò perché la politica economica si disinteressa del ciclo per enfatizzare interventi strutturali sulla competitività delle imprese o sugli squilibri territoriali? Assolutamente no: basterebbe rimandare alle note alla Finanziaria che la Confindustria ha esposto in Parlamento per osservare critiche radicali alla totale incapacità di prendere atto dei problemi di competitività dell’apparato industriale italiano. Sui limiti dell’approccio al Mezzogiorno sarebbe come sparare sulla Croce Rossa: trasformazione degli incentivi a fondo perduto in prestiti, eliminazione di fatto della premialità alle Regioni nell’uso dei fondi comunitari, tetti di spesa sui fondi per le aree depresse e così via. Due notazioni paiono, tuttavia, di una qualche rilevanza. I tagli dei fondi delle politiche sociali, come sembra ad esempio oramai certo per le risorse destinate alle cooperative socialmente utili, determina, furbescamente ma miopemente, uno scarico delle tensioni sociali sugli amministratori locali che, di fatto, sono chiamati a rispondere in piazza di decisioni loro esogene. È avvenuto di già con gli aumenti di tariffe che gli amministratori locali hanno dovuto praticare, non già per un miglioramento dei servizi, quanto per mantenere standard qualitativamente bassi, in presenza di stanziamenti centrali decrescenti. Infine: ridimensionare risorse, come ad esempio la dote finanziaria d’organismi quali Sviluppo Italia, che dovrebbero essere chiamati a incentivare l’afflusso d’imprese esterne o ad alleviare il fenomeno della deindustrializzazione, sembra accelerare la formazione di un blocco sociale nel Mezzogiorno tra istituzioni, imprenditori e lavoratori la cui convergenza d’interessi non si riscontrava così forte dal periodo aureo di Luciano Lama e Giovanni Agnelli. Se così fosse, sarebbe questo l’elemento distintivo di maggior pregio della manovra.

Repubblica NAPOLI, 24 ottobre 2004

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