La favola di keynes addormenta l’economia

Continuare a discutere sui problemi dell’economia campana è noioso e necessario al tempo stesso: noioso perché la mancata risoluzione dei problemi strutturali del nostro impianto produttivo si accompagna, da qualche tempo oramai, alle promesse d’interventi radicali; necessario poiché alcuni fenomeni d’attenuazione delle difficoltà tendono progressivamente a scemare. L’occasione, questa volta, è costituita dalla pubblicazione, da parte della Banca d’Italia, dei risultati di sintesi delle indagini che il nostro istituto di emissione fa svolgere alle sue strutture periferiche. Se ne può ricavare un prezioso quadro comparativo sulle tendenze delle regioni italiane e sulle performance relative di ciascuna di esse. Per quei pochi lettori che non ricordassero il serial delle poche luci e delle molte ombre della nostra economia, provo sinteticamente ad accennarle: in un quadro di stagnazione dell’economia italiana, la Campania ha attenuato, almeno fino al 2002, le spinte recessive grazie all’espansione di consumi e d’investimenti pubblici; l’andamento della produzione interna è stata sostenuta sempre meno dalla crescita del prodotto manifatturiero e sempre di più dal settore dei servizi; i settori tradizionali, quali tessili, abbigliamento e alimentari spiegano una quota crescente della produzione industriale, nonostante una diminuzione della dimensione d’impresa e una maggiore fragilità delle imprese di media e di piccola dimensione; la crescita dell’occupazione è praticamente nulla, se si eccettua la domanda di lavoro interinale; il tasso d’inflazione campano è più elevato della media nazionale. Queste le tendenze dell’ultimo triennio; tendenze che riportano la nostra economia da leader delle regioni meridionali a “regione tipo” del Mezzogiorno: la memoria torna alla precedente legislatura regionale, allorquando l’esecutivo rivendicava, con fierezza, la parziale esenzione della struttura produttiva campana dalla negatività del ciclo economico nazionale. E su questa passata propensione keynesiana della giunta regionale pare necessario ritornare, non fosse altro che per il motivo che non s’intravede, a tutt’oggi, alcuna seria inversione di tendenza. L’indirizzo di cospicue risorse regionali verso obiettivi, consapevoli e no, di stabilizzazione del reddito può avere indubbi apparenti benefici: la spesa in consumi, incentivi alle imprese, infrastrutture pare soddisfare i requisiti dell’efficienza, poiché può essere effettuata prontamente. Ancora, essa non necessita di rigorose analisi dei costi e dei benefici né di coraggiosi atti di chirurgia sociale: basta soddisfare la domanda che viene “dal basso”. Ci sarà sempre una provincia desiderosa di avviare un nuovo distretto industriale o dell’artigianato; un settore produttivo frammentato bisognoso d’elargizioni finanziarie; un Comune impegnato in scavi archeologici da un’eternità; una lobby formativa ritenutasi immeritatamente trascurata. La gratitudine elettorale, in ognuno di questi casi, sarà assicurata, diciamo, per sempre. Ed è stato appunto questo keynesismo, ma Keynes si rivolterebbe nella tomba cambridgeana, a determinare gli effimeri benefici di breve periodo e la riproposizione, aggravata, dei problemi strutturali. Dunque per qualche anno il reddito regionale è cresciuto più della media meridionale perché così come i soldi non hanno odore, nel breve periodo le componenti della domanda aggregata si equivalgono: un commerciante non è assolutamente interessato a sapere se la spesa del suo acquirente deriva dal finanziamento di un distretto inutile o, piuttosto, da un’erogazione strategica al settore aerospaziale. Ma, stranamente, l’economia non fa sconti: se si sostiene il reddito con efficacia congiunturale e inefficienza strutturale, si è inevitabilmente costretti a crescere più lentamente nel medio periodo. Morale della favola: ancorché politicamente appetibile, il nuovo esecutivo regionale rifugga dalla prassi del facile keynesismo e misuri il successo del proprio operato sulla capacità di individuare le misure più idonee a riattivare quel poco di strategico e di non deindustrializzato che rimane nella nostra regione e a potenziare gli sbocchi occupazionali dei giovani. Un solo keynesismo a breve è ammissibile ed eticamente degno: le misure di contrasto dell’esclusione sociale e della nuova povertà che, purtroppo, hanno vita più lunga di tanti sedicenti distretti produttivi.

Repubblica NAPOLI, 14 settembre 2005

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