Voci discordi a sinistra sullo sviluppo del meridione

Riprende copiosa la letteratura sul Mezzogiorno, sulla sua struttura produttiva, sul suo futuro. Le cause sono molteplici, politiche e accademiche, ma una pare prevalere: le politiche economiche per il meridione hanno fallito. E dunque ci s’interroga sulle ragioni di questo fallimento, privilegiando, finalmente, gli aspetti strutturali e macroeconomici e mettendo da parte localismi e pulsioni microeconomiche. Che ora le politiche per il Mezzogiorno siano indicate come politiche regionali o politiche per le aree meno sviluppate poco importa: è vero che il linguaggio adoperato può fungere da meccanismo di rimozione. Deludono, invece, taluni contenuti del ripensamento: ad esempio quelli del documento strategico preliminare nazionale del ministero del Tesoro, finalizzato all’individuazione delle continuità e delle discontinuità per gli indirizzi di politica regionale per il 2007-2013. La tesi di fondo è che la Nuova Programmazione per il Mezzogiorno, tra il 2000 ed il 2005, abbia raggiunto parzialmente i propri obiettivi. Tale parzialità, tuttavia, non determinerebbe una bocciatura completa delle linee essenziali degli indirizzi governativi che, anzi, con tenace pervicacia, sono riproposti per il prossimo settennio. Il parziale fallimento è addebitato a vari motivi: disatteso il criterio dell’addizionalità, ovvero il principio che fondi aggiuntivi dovrebbero essere stanziati oltre ai finanziamenti pubblici ordinari per le aree meno sviluppate; le amministrazioni locali hanno denotato una scarsa capacità di attivare con tempismo i fondi disponibili; le spese in conto capitale per le regioni meridionali sono cresciute meno e si sono tramutate, ancor meno, in investimenti. Si sollevano, dunque, interrogativi rilevanti anche per la sinistra, che sembra proporre soluzioni del tutto diverse per la molteplicità degli elementi contenuti: la persistenza di una questione meridionale, il giudizio sull’approccio localistico allo sviluppo, sull’adeguatezza delle risorse, sull’efficacia della spesa e sui criteri per valutarne gli effetti, sulla regionalizzazione della programmazione, sui settori strategici da incentivare. E le risposte, di fatto, seguono tre filoni alternativi: una prima imputa i fallimenti del riequilibrio territoriale alla somministrazione di una cura valida in sé, ma caratterizzata da un’insufficiente posologia; una seconda considera la cura del tutto nociva; una terza la considera corretta per la diagnosi, ma scorretta nella prognosi. Al primo filone appartengono quegli studiosi, come Gianfranco Viesti, che considerano fuorviante la riproposizione di tematiche comuni a tutte le regioni meridionali e che, sublimando le esperienze distrettuali dell’Italia centrale, auspicano una maggiore regionalizzazione dello sviluppo e della spesa, non considerando cruciale il problema del rafforzamento dimensionale delle imprese meridionali. Maggiori riflessioni suscitano le valutazioni, non poco discordanti, di Nicola Rossi e di Gianfranco Nappi nei loro recenti contributi editoriali. Il primo è ferocemente avverso alle patologie del localismo ed è convinto assertore della necessità del ritorno ad un centralismo di spesa che ridimensioni il ruolo e le responsabilità degli enti locali. Nappi, più saggiamente, giudica rilevanti le esperienze di programmazione regionale, ma ne intravede i limiti nell’assenza di politiche industriali e di rafforzamento dimensionale e nella scarsa capacità d’intrapresa degli imprenditori locali. Quale delle due filosofie prevarrà a sinistra non è dato sapere: è già tanto che “piccolo è bello” sia andato in pensione.

Repubblica NAPOLI, 04 gennaio 2006

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