L’occupazione senza qualità

Napoli ospita due distinte manifestazioni apparentemente scollegate, ma delle quali è necessario ricostruire i nessi. La prima è la manifestazione sindacale che si svolge oggi a Scampia; la seconda, che si terrà fra tre giorni, è la conferenza tra i governatori regionali delle regioni meridionali, all’indomani del voto. Diversi i soggetti sociali e, conseguentemente, diversi i ruoli istituzionali esercitati: nella prima, le confederazioni sindacali tese a rivendicare un diritto, nella seconda i responsabili della politica regionale chiamati ad esercitare un dovere di buon governo. E per quanto le parole d’ordine del corteo e la più mediata esposizione del linguaggio politichese possano differire, l’obiettivo ultimo non può che essere comune: il raggiungimento di un livello socialmente accettabile d’occupazione stabile nel Mezzogiorno. Affinché un simile obiettivo abbia probabilità di essere conseguito è necessario muovere da alcuni dati di fatto evidenti che, purtroppo, non sono scontati. Nel Mezzogiorno la timida attenuazione della piaga della disoccupazione è determinata da un triplice ordine di motivi: la cosmesi statistica, la precarietà e l’emigrazione. La cosmesi statistica è il derivato dell’ultima geniale intuizione del nostro Istituto Centrale di Statistica che, ridimensionando il numero di chi è alla ricerca d’occupazione, fa sì che i medesimi disoccupati costituiscano una percentuale minore dell’universo di riferimento. È un modo discutibile di risolvere il problema della carenza dei posti di lavoro, ma che ha precedenti nobili: nel 1927 la Gazzetta Ufficiale promulgò una legge che dichiarava estinta la questione meridionale. Oltre le acrobazie contabili dell’Istat vi è però un dato apparentemente positivo ma della massima preoccupazione: laddove nel Mezzogiorno, ed in special modo in Campania, l’occupazione tiene, la costanza è il risultato netto di posti di lavoro che muoiono e di posti di lavoro che nascono. I posti che muoiono riguardano il settore manifatturiero e, segnatamente, quello metalmeccanico; quelli che nascono, precari e instabili, riguardano i servizi, grazie all’efficace attività di caporalato delle agenzie interinali. Laureati frustrati nei call center e veline delle miriadi di congressi inutili sostituiscono nerboruti Cipputi; alle tute blu subentrano i tacchi a spillo, con indubbi guadagni della vista ma con sciagurate conseguenze sociali. La precarietà diviene il paradigma dell’attività lavorativa svolta; prima era “ a fatica”. Ma chi non ha le doti vocali e la propensione all’alienazione per lavorare in un call center o i mezzi fisici per indossare la minigonna e, con tanto d’etichetta recante un nome esotico (mai un’hostess che si chiami Carmelina o Assuntina) lavori ad ore per una manifestazione, può sempre emigrare. Si tratti di laureato o, più semplicemente, di un giovane che entra sul mercato del lavoro, ci sarà sempre la possibilità, come in una recente ricerca sull’emigrazione meridionale in Emilia Romagna condotta da Davide Bubbico, di andare a lavorare alla Ferrari di Maranello, che non assume lavoratori di colore, o alla Landini di Reggio Emilia, dove il terzo degli oltre 800 lavoratori provenienti da Napoli, Bari e Foggia, possono alloggiare, a pagamento e nel più coerente spirito manchesteriano, nei mini appartenenti di proprietà dell’azienda. Manca solo che l’impresa si attrezzi, per riguadagnare i salari distribuiti, per lo spaccio alimentare, i superalcolici e le donnine. Il dramma è che la crisi industriale del nostro paese, come testimonia il recente documento sulla competitività di Confindustria, sta dispiegando i suoi effetti strutturali con democratica gravità su tutti i settori produttivi. E nel Mezzogiorno, paradossalmente, quanto più la tenuta risulterà congiunturale, tanto più le decisioni strutturali saranno rimandate e diverranno sempre meno affrontabili. Tale gravità, peraltro, non è stata fin qui percepita da quegli economisti e dai responsabili per il Mezzogiorno del maggiore partito della sinistra che hanno propinato pervicacemente teorie sul localismo effervescente, sul Sud a macchia di leopardo, sulla fine della questione meridionale, sulla necessità di differenziali salariali, sui miracoli della flessibilità. Richiedano oggi i sindacati politiche regionali coordinate e vincolino l’azione dei governatori al raggiungimento di obiettivi occupazionali soddisfacenti in settori propulsivi. Si richieda a chi sarà domani chiamato a subentrare al governo un’inversione di tendenza sul meridione. Lo sciagurato binomio “mercato nazionale - mercatini locali” non avrebbe potuto fare più danni.

Repubblica NAPOLI, 01 maggio 2005

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