Il Mezzogiorno dentro la crisi. Il mio punto di vista

di Giovanni De Falco, direttore Ires Campania.

 

Dopo una serie di articoli dedicati al dibattito scaturito nella due giorni seminariale di Napoli dedicati a ‘Il Mezzogiorno dentro la crisi: rischi e opportunità’, mi riservo queste poche righe per esprimere un personale punto di vista.

Non intendo parlare di ‘nuovo meridionalismo’ che nacque nell’immediato dopoguerra con quella eccezionale rete di relazioni, favorita ed incoraggiata dal ministro Rodolfo Morandi, e che portò, poi, alla nascita della Svimez (1946) sull’onda lunga delle ‘lezioni’ di Francesco Saverio Nitti e di Alberto Beneduce che nel 1910 dettero vita all’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno.

Il ‘nuovo meridionalismo’ - che intendeva coniugare l’impegno civile per il superamento del dualismo economico italiano e segnare una rottura metodologica sul terreno delle analisi e nella definizione di una nuova architettura di strumenti e terapie per il superamento di quel dualismo - fu sconfitto dalle dinamiche perverse del sistema economico e politico nazionale e per la mancata percezione delle nuove condizioni determinatesi all’indomani della prima crisi energetica (prima metà degli anni ’70).

Intendo riprendere, invece, i contenuti del Seminario della Cgil che è stato un utile ‘strumento’ di analisi sulla attuale situazione economica, politica e sociale del Mezzogiorno. Non ha offerto ‘soluzioni’ ma ha sollecitato riflessioni che risulteranno utili a chi è chiamato, per responsabilità e mandato, a decidere sulle politiche di sviluppo per il meridione.

Il ‘meridionalismo nuovo’ (è di questo che voglio parlare), a mio parere, può (ri)partire da qui, ponendo al centro del suo interesse tre semplici (apparentemente) questioni:

? prima, riconoscere che il problema del meridione non è mai stato esclusivamente l'arretratezza economica, ma il suo sistema di valori, la sua organizzazione sociale e il modo di "gestire" le istituzioni;

? seconda, bisogna impegnarsi a selezionare la classe dirigente attraverso criteri etici e meritocratici (competenza politica). Le nostre élite hanno, in genere, mal governato (è stato sottolineato da quasi tutti i relatori e partecipanti) dimostrando una spiccata tendenza verso l'interesse particolare (nei Vicerè, celebre romanzo di De Roberto, il duca d'Oragua, senatore nel primo Parlamento della neonata Italia dice: «ora che abbiamo fatto l'Italia, dobbiamo farci i fatti nostri»). Inoltre, negli ultimi 30 anni, e con un sostanziale assenso delle classi dirigenti nazionali, la classe politica meridionale è parte organica di un sistema clientelare (in gran parte anche illegale, come ricordato dai magistrati intervenuti e dalla professoressa Gabriella Gribaudi) che controlla il sud;

? terza, mettere il principio di "accountability" a fondamento della gestione pubblica. Questo implica l'accettazione di uno Stato federale (per intenderci, quello auspicato da Giannola).

Dorso («La rivoluzione italiana sarà meridionale o non sarà») e Salvemini vedevano una sola possibilità per il Mezzogiorno: l’affermarsi di una classe politica capace di agire autonomamente e compiutamente, rifiutando trasformismi e compromessi. Purtroppo la speranza di un profondo rinnovamento della classe dirigente meridionale è rimasta tale, ma questa disillusione deve spingere cocciutamente in avanti la volontà dei “coraggiosi” a non desistere dall’ambizioso obiettivo.

Mi sembra utile, a questo punto, riportare alcuni brani tratti da un articolo a firma di Augusto Graziani dal titolo ‘Il Mezzogiorno e l’economia italiana’, chiunque riconoscerà la freschezza e l’attualità di questa analisi che Graziani propose, che ci crediate o no, nel lontano 1985: «Le prospettive di sviluppo dell’economia meridionale dipendono strettamente dall’evoluzione strutturale della società meridionale. […] Se è vero che l’economia del Mezzogiorno è tuttora largamente retta dal flusso di spesa pubblica, e […] lo sviluppo dei consumi sopravanza di gran lunga lo sviluppo degli investimenti produttivi, dobbiamo anche concludere che l’amministrazione del flusso di spesa pubblica costituisce la fonte di potere maggiore nella società meridionale. Il potere che altrove viene attribuito alla grande industria o all’alta finanza, va invece attribuito, nelle regioni del Mezzogiorno, ai ceti che amministrano la spesa pubblica. […] Dotati di autorità sul piano locale, gli appartenenti a questo ceto sono dotati di eguale autorità sul piano nazionale, in quanto è esclusivamente con loro che possono essere stipulate le alleanze su cui si reggono i governi nazionali. […] Se si esamina la struttura della società meridionale, ci si rende conto di come sia difficile individuare altri strati sociali che possano ristabilire un equilibrio. […] le classi dirigenti del Mezzogiorno traggono il loro potere proprio dalla struttura dipendente dell’economia meridionale, e non possono quindi avere alcun interesse diretto a vederne capovolti i tratti fondamentali. È quindi assai dubbio, proprio per ragioni connesse alla struttura economica del Mezzogiorno, che si possano considerare le classi dirigenti come forze propulsive dello sviluppo». (The Mezzogiorno in the Italian economy, cje.oxfordjournals.org/cgi/reprint/2/4/355).

In pochi, credo, abbiano letto i non facili articoli di Luigi Bersani (Sole 24ore, 20/11/07) e di Nicola Rossi (CorrierEconomia, 3/12/07). Non facili perché richiedevano particolari conoscenze delle politiche per lo sviluppo locale. Essi offrono due differenti interpretazioni sui ‘risultati’ delle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno: Bersani riconosce, nel suo pezzo, gli esiti deludenti dell’ultima generazione di politiche per il Sud e propone una ‘cabina di regia’ bipartisan tra tutti gli attori istituzionali (Stato, Parlamento, Regioni); Rossi dissente decisamente «altro che esiti parzialmente deludenti, si è trattato di un disastro!» ed alla cabina di regia contrappone una Commissione parlamentare d’indagine per accertare i danni prodotti al Paese proponendo la liquidazione di tutte «le strutture burocratiche che hanno la responsabilità di quanto è accaduto e contribuiscono ancor oggi a definire natura e caratteristiche degli interventi». Nicola Rossi è drastico (non è il solo), sostiene che nel contesto meridionale il metodo dialogico e discrezionale - che nelle illusioni dei riformatori doveva servire a costruire una diversa mentalità, relazioni fiduciarie, capitale sociale - inevitabilmente sarebbe caduto preda di pratiche radicate, di politici, imprenditori, professionisti intenzionati ad estorcere denaro pubblico per finalità che con il benessere collettivo poco hanno a che fare.

La domanda che mi/vi pongo allora è: esistono oggi, all’interno della società meridionale, forze in grado di farsi motore di cambiamento?

Forse - è questa la mia risposta - bisogna imparare a fare da soli, ad uscire dall'ottica di una società paternalistica, che ha bisogno sempre e comunque dell'approvazione delle istituzioni che poi, per altro lato, si criticano.

Saper creare spazi di democrazia reali, viventi sul territorio, aperti, indipendenti ed autogestiti. Espandendo queste esperienze il più possibile per poi metterle in connessione, creando una rete di competenze ed abilità vitali, positive ed in grado di fare massa critica, capaci di creare punti di vista autonomi e allo stesso tempo poco ricattabili dalla (mala)politica.

Esperienze da contrapporre alla «implacabile, progressiva erosione - come afferma Sergio Marotta - dei confini tra legalità e illegalità finanziaria e, quindi, sociale» ed alla «spettralità istituzionale, la schizoide frantumazione del corpo sociale in nicchie sempre più ristrette, sempre più impermeabili, sempre più votate all’autoreferenzialità».

NotizieSindacali.com Sezione Politica. Notizia n. 52 del 12/12/08.

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