Campania dal disordine al possibile. Il Lavoro

L’obiettivo ambizioso di contrastare e di sconfiggere la disoccupazione  cammina oggi in Campania su sentieri sempre più sconnessi, con strade sempre più sbarrate.
I problemi sono di diversa natura, a partire dal sottosuolo stratificato di cause che è proprio di una disoccupazione storica e dalla cronicizzazione dei fenomeni di disoccupazione-sottoccupazione.

Le strade tracciate dalla strategia di Lisbona e dalle alternanti politiche nazionali, progressiste e neoliberiste, per molti aspetti tra loro intrecciate, appaiono accidentate dai continui rischi-ricatti di smobilitazione industriale, dalla perdurante punizione sui bilanci pubblici destinati al Sud e al sociale, dalle incapacità di indirizzo e di gestione delle istituzioni territoriali, dalla penetrazione di illegalità e camorra nell’amministrazione pubblica e nel tessuto sociale. Per finire, le frane più recenti, con la crisi che investe a largo raggio  i cassintegrati, la fiat, fincantieri, i precari etc. In questo impossibile cammino gli obiettivi bipartisan di un graduale recupero dei divari, verso un normale mercato del lavoro, attraverso la strada della formazione, della flessibilità, della modernizzazione del mercato del lavoro  e dello sviluppo del mercato, si allontanano anziché avvicinarsi, con una linea di tendenza che si manifesta assai prima della crisi e che nella crisi accentua le distanze.
Se guardiamo i dati economici di contabilità regionale, negli anni 2004-2007, ad un andamento non positivo dell’occupazione, ha corrisposto una crescita, seppure debole,  del Pil; il che significa che vi sono stati incrementi di produttività per gli occupati. Anche le statistiche ufficiali sulle forze di lavoro, che arrivano alla metà del 2009, confermano che il mercato del lavoro in Campania ha mostrato, in un quadro di sostanziale e persistente debolezza, miglioramenti qualitativi e capacità selettive  della domanda di lavoro che, seppure di minima entità, sono apparsi coerenti con gli obiettivi di competitività delle imprese,  di produttività del lavoro, di qualità degli investimenti. Il mercato non ha mostrato, tuttavia, una maggiore capacità di occupazione, anzi ha perso occupazione.
campania_tChe ad un restringimento del mercato del lavoro ufficiale in chiave selettiva e di razionalizzazione produttiva abbia corrisposto un incremento di occupazione irregolare, è un’ipotesi su cui le statistiche tacciono. Le stime regionali dell’Istat sul sommerso infatti sono ferme al 2005 e parlano di una quota di occupazione irregolare sul totale degli occupati pari al 20%, di 8 punti percentuali superiore alla media nazionale. I risultati delle ricerche sul campo (quella più recente è una ricerca dell’Arlav, l’Agenzia regionale del lavoro, condotta sui disoccupati iscritti al centro per l’impiego di Scampia) sembrano mostrare un’economia sommersa diffusa, che presenta debolezze e variazioni analoghe a quella ufficiale e una occupazione irregolare che si configura decisamente come sottoccupazione povera e marginale. Certo è che, con il ridursi dell’occupazione ufficiale, si riducono quei lavori coperti dalla previdenza, dall’assistenza, dalle norme di sicurezza e dalle altre forme di tutela legale, e non si contribuisce ovviamente a scoraggiare e a contrastare il sommerso e l’economia criminale.   E certo è che, se migliora il profilo qualitativo e produttivo dell’occupazione regolare, (che non cresce), e se a questi miglioramenti non si collegano altri ambiti strategici per la crescita del benessere della collettività e del lavoro, come la gestione pubblica, il sistema dei servizi, la scuola e la formazione, il territorio, la legalità, ne consegue che, per tutto quello che il mercato concorrenziale lascia  fuori dall’occupazione regolare, non ci sono altre opportunità, altri luoghi in cui cercare lavoro. Non restano che le sponde del pubblico, dell’assistenza, dell’emigrazione  o della marginalità.

Chi è dentro e chi è fuori

Né c’è stato, in ogni caso, nel mercato del lavoro della Campania, l’impatto atteso delle misure di flessibilità del lavoro. O meglio, le flessibilità ci sono state, anche in misura relativamente maggiore del livello medio nazionale, ma non c’è stato l’effetto che queste misure prospettavano, vale a dire  un mercato del lavoro regolare più aperto, fluido ed attrattivo nei confronti della popolazione non occupata, che nelle attese avrebbe dovuto anche spiazzare il sommerso, facendo emergere il lavoro irregolare.  Questo semplicemente perché  i margini di guadagno che l’impiego più flessibile del lavoro ha offerto all’economia della Campania hanno riguardato settori a più alta produttività e prodotto in questi settori incrementi di produttività che non generano occupazione (il contrario dell’atteso aumento di elasticità tra incrementi della produzione e della occupazione), mentre sono stati pressoché inesistenti i margini di guadagno nei settori che impiegano lavoro già a basso costo e già in modo completamente flessibile e continuano a farlo così. Emblematico è il caso del settore edile in cui l’occupazione avviene sempre con contratto a tempo indeterminato o anche il fatto che l’incentivo all’occupazione più utilizzato dalle imprese della Campania è dal 1990, ovvero da vent’anni a questa parte, anni  che hanno cambiato il mondo, quello per l’assunzione a tempo indeterminato di disoccupati di lunga durata.
La popolazione non occupata non solo è aumentata, ma sembra anche più distante dal lavoro. Con la perdita di occupati vi è stata una forte e progressiva contrazione delle forze di lavoro, quella popolazione che sommando gli occupati e le persone in cerca di occupazione rappresenta l’entità della partecipazione complessiva al mercato del lavoro e determina, da un lato, le condizioni e i parametri del suo funzionamento e del suo equilibrio, dall’altro quanta e quale è la sfera di influenza del fattore lavoro in una determinata  area territoriale. Dunque ci troviamo di fronte a un mercato più ristretto, o meglio meno congestionato di quello in cui la componente in cerca di occupazione sfiorava percentuali del 30% delle forze di lavoro e determinava condizioni di ingovernabilità dei meccanismi di equilibrio e  di funzionamento. Ma anche una più forte segmentazione nell’economia e nella società campana tra chi è dentro e chi è fuori dal mercato del lavoro. Il che ci riporta al discorso già fatto su quello che resta in termini di opportunità per chi è fuori: il pubblico, l’assistenza, l’emigrazione, la marginalità.
Per avere un’idea di cosa significhi un basso livello, o un calo di occupazione o di forze di lavoro, dobbiamo ad esempio sapere e digerire che ai divari storici di occupazione tra la nostra regione e il livello medio nazionale possiamo direttamente attribuire un ammanco oggi di 30 miliardi di euro all’anno nel reddito della Campania. Questo è il risultato se si sommano il più basso numero di occupati dipendenti e di pensionati (calcolando qualsiasi tipo di pensione anche sociale o di invalidità),  e il più basso livello di reddito che sia i dipendenti che i  pensionati  percepiscono in Campania; un terzo del reddito prodotto nella regione.
Un mercato del lavoro così malmesso e poco accogliente, tutto teso ad aumentare la propria capacità competitiva e produttiva, costituisce da un lato una necessità e dall’altro una risorsa per le politiche di sviluppo improntate alla competizione cosiddetta selvaggia. La guerra tra poveri e le distanze sempre più profonde tra chi è dentro e sta bene e chi è fuori e sta malissimo sono il terreno ideale per realizzare, ad esempio a Pomigliano, il modello polacco di produzione della Fiat, dando l’illusione di salvare e riscattare il tessuto produttivo della regione ma in realtà assecondandone la tendenza regressiva e la debolezza strutturale. Il tutto nel perfetto isolamento da tutto il resto delle questioni economiche, politiche e sociali che impediscono alla economia della regione e alla società di uscire dal malessere,  a meno che la Fiat non pensi anche al modello di sviluppo del ‘900, dove insieme alla grande fabbrica cresceva il territorio, la città, la società,  e dunque pensi di accompagnare l’operazione polacca con investimenti nella nostra regione nel campo della ricerca, dell’innovazione, della bonifica del territorio, dei servizi e delle politiche sociali. Per  dare almeno il senso, in questa lotta dei poveri, di un sacrificio che faccia migliorare la prospettiva di crescita del benessere collettivo agli operai che nel complesso dovranno fare i turni di notte, rinunciare alle ferie, lavorare il sabato e la domenica, per produrre di più e avere meno salario di base, meno garanzie sul lavoro, meno prospettive di carriera.  Una prospettiva di migliore benessere che forse in Polonia c’è.

Il training di sopravvivenza delle politiche del lavoro

Le politiche di sviluppo guardano com’è noto all’impresa, all’attrazione degli investimenti, agli investimenti nell’innovazione e nelle infrastrutture. O almeno così è stato fino ad ora e solo negli anni più recenti si è iniziata a vedere qualche traccia di strategia che guardasse allo sviluppo dei servizi e agli indicatori di diffusione del benessere dell’ambiente, delle persone e delle comunità come fattori determinanti di sviluppo.  Sul versante del lavoro, le politiche di sviluppo puntano sostanzialmente sulla formazione, sulle performance di produttività, sull’abbattimento dei costi, sui moderni servizi per l’impiego. Il tutto è finalizzato all’occupazione, anche se di occupazione lo sviluppo ne produce poca e a carissimo prezzo (unitario e sociale). Il tutto è fondato sul presupposto che senza sviluppo non c’è occupazione; ma, come si è visto, nemmeno con lo sviluppo in crescita con il contagocce e a fasi alterne c’è l’occupazione, anzi sembra proprio che ce ne sia sempre di meno, anche se il risultato di renderla più produttiva, qualificata, duttile e meno costosa è stato in parte raggiunto, anche in Campania.
Le politiche del lavoro invece tendono sempre più ad assomigliare a percorsi di training  di sopravvivenza  sulla competitività del mercato del lavoro piuttosto che a ciò per cui sono nate, nei paesi scandinavi, circa quaranta anni fa: interventi che si dedicano al funzionamento del mercato del lavoro, alla formazione delle risorse umane, alla inclusione delle fasce deboli, alla prevenzione e alla cura dei fenomeni di disoccupazione più gravi o più specifici, o alle situazioni di crisi,  entro strutture di mercato del lavoro in cui sostanzialmente la disoccupazione si manifesta in dimensione “fisiologica” o per cause contingenti e non ha carattere di massa e strutturale. In contesti come quello della Campania, ma in misura consistente anche nell’insieme del nostro Paese, queste politiche si muovono disordinatamente, incidono in misura del tutto marginale, impiegano risorse inevitabilmente e doppiamente sproporzionate: troppo poche rispetto ai problemi da affrontare, paradossalmente troppe rispetto agli effetti che possono  produrre e che producono.
Le scelte di politica attiva del lavoro più recenti in Campania sono in tal senso emblematiche, anzi mostrano addirittura che l’utilizzo di questi strumenti può accentuare gli effetti sociali ed economici di un mercato del lavoro asfittico e segmentato. Pensiamo ai corsi per le aree più disagiate della disoccupazione, o ai provvedimenti per i cassintegrati e i precari della Fiat che integrano con fondi regionali le indennità di sostegno al reddito nel periodo di disoccupazione. Si tratta di interventi che fronteggiano l’emergenza della povertà assoluta e quella di una classe operaia industriale in smobilitazione. Misure dalle quali non ci si può sottrarre, e su cui nessuno può, in coscienza, avere niente da ridire,  e nessuno dice niente. Tutto torna.
Queste misure, tuttavia, danno fondo a tutte le risorse che la Regione può impiegare nelle politiche attive del lavoro, e chiudono la porta dell’aiuto all’inserimento formativo e lavorativo. Sono fuori le criticità dominanti del mercato del lavoro, la condizione delle donne e quella dei giovani. Sono fuori oltre quattrocentomila famiglie che vivono in povertà assoluta, nelle quali più di trecentomila sono i componenti giovani e adulti disoccupati. Sono fuori i circa 300 mila occupati precari di cui buona parte  nella crisi perde il lavoro.
Dovrebbe essere forse più chiaro e più esplicitato nei confronti dell’istituzione pubblica, il fatto che chi resta fuori da queste sfere polari della politica attiva del lavoro riceve un danno assoluto e relativo.  Un danno tanto più grave se nei fatti i corsisti disoccupati svantaggiati sono pescati nelle liste dei movimenti di lotta e beneficiano di aiuti-sussidi da almeno quattro anni, e in molti disertano i percorsi di inserimento formativo e lavorativo, e non accetteranno mai un lavoro diverso da quello pubblico, incamminandosi verso questo sicuro approdo così come è stato in passato, a Napoli,  per i cantieristi, i monumentalisti, i lavoratori socialmente utili, dando nuove speranze ai nuovi tremila o cinquemila che apriranno nuovi fronti di lotta. Cui prodest?
Ed è proprio dalla esclusione di questo grosso che resta fuori, le famiglie povere, le donne e i giovani che, in conclusione, altro non si ricava se non  un complessivo aggravamento delle condizioni sociali ed economiche della regione e una complessiva riduzione delle prospettive di sviluppo economico e sociale. È in questo circolo vizioso che ci troviamo.

Le categorie bersaglio: donne e giovani

La condizione professionale e sociale delle donne ha in questo senso un particolare rilievo. La dimensione femminile attraversa con la propria soggettività e la propria creatività l’economia e la società della Campania come avviene nel resto del mondo. La rappresentazione delle differenze di genere che ci rivelano le statistiche mostrano tuttavia che in Campania, tra uomini e donne nell’occupazione e nella disoccupazione, e tra donne che lavorano e donne che sono fuori dal lavoro, le distanze e le differenze aumentano, sistematicamente a svantaggio (se svantaggio si deve intendere la persistenza nelle posizioni più basse delle professioni, nei livelli più bassi di retribuzione, nei lavori precari e a termine, nella  condizione di casalinga) di alcune categorie: delle donne in assoluto, giovani e adulte, scolarizzate o non scolarizzate, e, tra le donne,  a svantaggio delle più deboli, delle  meno scolarizzate e qualificate e delle appartenenti ai ceti meno abbienti.  La dimensione lavorativa e sociale delle donne è investita e vissuta, qui più che altrove, dal centro delle contraddizioni prodotte da un sistema economico debole e da un sistema di welfare che non assicura con regolarità e con certezza un reddito sufficiente e servizi fondamentali alle famiglie in difficoltà, non è amico dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, degli anziani e dei disabili che, nella loro vita e nella loro crescita,  hanno come punti di riferimento centrali e prevalenti le donne.  E’ questa una dimensione materiale del ruolo e della posizione delle donne che appare tanto faticosa e penalizzata quanto centrale e incisiva nei percorsi di lavoro e di vita dell’intera popolazione e nella struttura sociale. Una dimensione che proietta  nel possibile una soggettività che ha voglia di cambiamento e di identità, che vive con crescente distanza e disagio il modello e la realtà dominanti, e che invece riconosce e propone come propria sfera di creatività e di benessere i valori della solidarietà, dell’autonomia e della centralità della persona.
Sul peso e sul significato che ha la condizione dei giovani, largamente aderente in Campania al nuovo modello dell’economia-società globale, tutti precari-tutti su internet,  sembrano invece incentrarsi i nodi del disordine del nostro territorio. La Campania è la regione più giovane d’Italia. In Campania c’è il più basso indice di scolarizzazione e il più alto indice di dispersione scolastica. In Campania i  giovani incontrano più che altrove una domanda di lavoro ostile e una offerta di lavoro concorrente che specie nell’accesso a impieghi stabili può contare sulla maggiore esperienza di lavoro e su maggiori incentivi all’assunzione. Il lavoro dei giovani in Campania è più che altrove caratterizzato come precario e a termine, concentrato nel settore dei servizi, impiegato  in mansioni che sono in prevalenza a bassa qualificazione.
Il dato più allarmante per la Campania è tuttavia quello sulla povertà, sull’allargamento della popolazione in condizione di povertà assoluta e sull’intensificazione del disagio economico di questa popolazione.  E’ per questo, prima ancora che per convinzioni teoriche o ideologiche, che l’adozione di misure di contrasto alla povertà  appare per la Campania una scelta irrinunciabile e non rinviabile.
Questa scelta-necessità rappresenta però anche un’opzione di frontiera verso il possibile. Immaginiamo cosa possa rappresentare un ampio intervento assistenziale in un contesto che veda immutate le contraddizioni che esistono tra processi di sviluppo e squilibri strutturali, invariata la considerazione della questione sociale come questione residuale rispetto allo sviluppo, ferma allo stigma di negletta la questione dell’assistenza. E immaginiamo immutati i limiti e le inefficienze della struttura politica e amministrativa che si occupa della gestione della cosa pubblica. Il quadro delle possibili manipolazioni e degenerazioni di un  intervento sul sociale appare a dir poco preoccupante.
Pensiamo invece alla complessità della questione sociale in una realtà nella quale condizioni materiali di disagio legate alla disoccupazione e alla povertà si uniscono alle nuove criticità sociali legate al modello di sviluppo competitivo fondato sul lavoro flessibile. Pensiamo alla vulnerabilità, all’individualizzazione, alle differenze. Qui  più che altrove e con più urgenza è necessario un complessivo rafforzamento del modello di welfare e l’adozione di un sistema articolato e ampio di protezioni (attive, to-work, to-citizen- to-empowerment o semplicemente to-welfare che siano) che assicurino universalisticamente i diritti fondamentali, e restituiscano il senso di un comune interesse e di un comune diritto alla autonomia e alla realizzazione delle persone nel lavoro. In  questa visione la politica regionale, sebbene vincolata agli indirizzi politici nazionali e limitata nelle risorse finanziarie,  può incidere in modo determinante, in particolare su tre questioni che attengono a funzioni di politica sociale e di politica del lavoro  che sono di sua diretta competenza: il reddito di base, l’offerta di servizi reali, la piena valorizzazione del lavoro.
La Regione che ha istituito e introdotto“il reddito di cittadinanza” non può di fatto sostenere una estensione generalizzata di questa misura di contrasto alla povertà senza una dotazione finanziaria adeguata e senza una cornice istituzionale, regolativa e gestionale solida, possibile solo entro una dimensione finanziaria e istituzionale nazionale. Questo non esclude, tuttavia, che sulla esperienza maturata nei quattro anni di sperimentazione del dispositivo si possa comunque intervenire,  correggere  limiti di impostazione e di gestione,  ampliare il finanziamento e l’area dei destinatari. Si può, in particolare, assicurare al dispositivo quel carattere universalistico e di equità che è in gran parte mancato,  e  la funzione di coagulo degli interventi di politica sociale e di politica attiva del lavoro, determinante per la costruzione di un nuovo modello di welfare.
La regione che ha il compito di programmare e coordinare le politiche sociali, le politiche dell’istruzione e della formazione, le politiche attive del lavoro, non può sostenere questa dimensione senza una struttura di risorse finanziarie e strumentali ordinaria e strutturalmente congrua, non può essere sistematicamente sorretta in  queste funzioni dalla disponibilità di risorse straordinarie europee. Come reperire risorse più adeguate a queste politiche, soprattutto rispetto alle dimensioni della povertà e della disoccupazione, è un problema che si pone  al centro del confronto politico e al centro di scelte politiche di priorità che riguardano il bilancio regionale e che possono trovare nella opzione della estensione e del rafforzamento del reddito di cittadinanza uno strumento che serva anche alla razionalizzazione e alla riduzione delle spese nella sanità e in altri settori investiti dagli oneri e dalle pressione delle emergenze sociali.
La questione sociale rappresenta la priorità negativa della Campania ma è anche una possibile risorsa per la valorizzazione del lavoro (del lavoro sociale, del lavoro di cura, del lavoro di accoglienza, dei lavori nei bacini di impiego legati al risparmio energetico, al riuso, alla cultura e all’arte, all’insegnamento, alla manutenzione del territorio e delle città ecc.) e, per questa strada, per la creazione di nuova occupazione. Un’occupazione che può svilupparsi anche con standard di costi e di produttività  fuori mercato ma che allo sviluppo del mercato può assicurare importanti impulsi in termini di reddito, professionalità, servizi, legalità. Una buona ragione, questa, per attendersi che il mercato regionale, e soprattutto il mercato più ampio dell’imprenditoria concorrenziale, delle grandi imprese di servizi, possa sentirsi parte attiva ed  essere coinvolto con meccanismi di partecipazione e di premialità che riguardino gli investimenti finanziari, la partnership negli interventi, la messa a disposizione di now-how tecnologico e organizzativo.
Esiste dunque una concreta strada per il cambiamento, dura, durissima da sostenere e da praticare ma, a quanto sembra, priva di alternative.  Essa è affidata al confronto politico ma anche alla capacità politica di delineare una nuova strategia e di comprendere le istanze e le soggettività sociali che il mercato e l’intervento pubblico hanno fin qui pesantemente penalizzato.  Una larghissima fascia di lavoratori e disoccupati in condizione di povertà, una vasta umanità fatta di donne e di giovani che si sentono sempre più “altro”  rispetto al mondo del lavoro così com’è, e sempre più ostacolati nel modello di società in cui vivono.

[Il Lavoro” è apparso in: Giulio De Martino, Campania dal disordine al possibile, Edizioni Intra Moenia, Napoli, 2010, è pubblicato per gentile concessione dell'editore. Tutti i diritti riservati ©Edizioni Intra Moenia]

 

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