Il gioco delle tre carte che qualcuno chiama “politiche sociali”.

Gianni De Falco, direttore Ires Campania.

Alla domanda “che cosa sono le politiche sociali?” si risponde di volta in volta, e secondo il contesto in cui ci si colloca, in maniera diversa.

L’attuale ampliamento delle sfere di politica pubblica potenzialmente connotate come “sociali”, quali ad esempio le politiche per la famiglia, o le politiche attive del lavoro, sfidano, senza riuscire realmente a trasformare, la loro impostazione di fondo, connotata in senso fortemente assistenziale.

Si tratta, in effetti, di politiche che non possono fare leva su diritti garantiti e chiaramente legittimati, né dalla carta costituzionale, né da alcun’altra strumentazione giuridica. Inesigibili: se ci sono è bene, se non ci sono vanno rivendicate pur in assenza di garanzia e legittimità.

Storicamente – a parte la parentesi fascista che fece propria una politica sulla famiglia fatta di controlli, di gerarchizzazione sessuale, e di sottomissione agli interessi dello stato – sono state politiche di controllo sulla povertà. Sono andate trasformandosi con le modificate esigenze familiari avvenute con l’aumento dell’incidenza del lavoro femminile, con l’aumento di bisogni e di difficoltà non necessariamente legate allo stato di indigenza (tossicodipendenze, disabilità, vecchiaia), oltre che con le rivendicazioni femminili al riguardo.

Il forte e persistente squilibrio verso interventi di tipo monetario con logiche di riduzione del danno rispetto ai servizi in natura (di vario genere e con soglie d’accesso differenziate), disegna un assetto di fondo piuttosto problematico per le politiche sociali.

Accanto al tema delle risorse per il sociale – modeste, mai certe e per certi versi molto fantasiose come cercherò di dimostrare - si pone quello dell’incoerenza in cui le politiche sociali (ma non solo queste) oggi si trovano ad operare sul piano dell’architettura istituzionale dello Stato.

La logica che ha condotto alla determinazione di taluni provvedimenti portano ad innalzare alla cronaca e alla storia due figure politiche di ingegnoso impegno e di italica fantasia applicata all’economia e, purtroppo, al governo di questo Paese: Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Di seguito (ri)porterò alcuni esempi sul tema.

Primo esempio: tra le misure più “reclamizzate” dal Governo Berlusconi, e soprattutto da Tremonti, c’è la social card, ovvero, diciamola tutta, una “tessera della povertà”.

Quasi nessuno ha evidenziato il carattere socialmente e culturalmente retrivo di un provvedimento caritatevole che stigmatizza i poveri.

Alla cassa del supermercato, quindi, c’è chi paga con la carta di credito e chi con la tessera dei poveri. Si tratta di pochissimi soldi (40 euro mensili) e per poche persone (al massimo 1 milione 300mila persone si disse, in realtà 550mila, appena il 42%).

Ma la fregatura vera è un’altra. La social card viene finanziata sostanzialmente con i tagli ad altre spese sociali. Ti diamo 40 euro al mese per fare la spesa e pagare  l’affitto (!) ma ne taglio il doppio togliendoti (o togliendoli a qualcun altro) il diritto all’assistenza domiciliare o ad altri servizi essenziali.

Insomma, un grande bluff: presentare per importante misura sociale un modesto e limitato (e caritatevole) intervento mentre nel contempo si tagliano “altre” e più sostanziose spese sociali.

Secondo esempio: il Governo ci aiuta, con un provvedimento ad hoc, a capire come ottenere soldi in prestito: basta fare un figlio e così, se si hanno i requisiti, poter chiedere un prestito di 5mila euro per pagare le spese dell’asilo nido e dei pannolini. Il tutto da restituire in 5 anni a tassi agevolati.

Queste sarebbero le “politiche per la famiglia” di Berlusconi e Tremonti. Invece di costruire asili nido e di defiscalizzare ulteriormente i salari per i carichi familiari o di garantire l’accesso gratuito ai servizi sotto una certa soglia di reddito, il Governo invita le famiglie a indebitarsi (alla faccia del bicarbonato di sodio! come diceva il povero Totò).

Si trattava di un provvedimento urgente (è questo, infatti, il senso dei decreti legge, no?), eppure è passato un anno (dal dicembre del 2008) per veder varati i regolamenti attuativi.

A proposito: il fondo di garanzia è stato preso dal Fondo nazionale per le politiche sociali. Come finanziare un provvedimento sociale togliendo, come al solito, altri soldi alle politiche sociali.

Terzo esempio: Berlusconi, vantandosi di avere previsto un’indennità di disoccupazione anche per i lavoratori precari (che non hanno cassa integrazione né altre forme di ammortizzatori sociali) ha dichiarato «Non lasceremo nessuno senza aiuto». Oddio, un’altro bluff.

La misura prevede un “una tantum” del 20% dello stipendio lordo per i precari con una retribuzione annua lorda da 5mila fino a 13.819 euro.

Solo una modesta minoranza riceverà questo aiuto. Non lo riceverà chi guadagna 14mila euro o anche 18mila (che corrispondono a 900 euro netti al mese), o chi lavora nella Pubblica Amministrazione o chi dovesse avere due contratti a progetto, uno da 5mila e l’altro da 6mila euro lordi e dovesse essere licenziato da entrambi i committenti.

Infine per avere l’indennità, bisogna avere versato nell’anno precedente a quello di licenziamento almeno 9 mesi di contributi. Molti precari, quindi, rimarranno senza aiuto.

La fantasia, si sa, non ha limiti e a questi provvedimenti si assommano le dichiarazioni più che fantasiose del ministro Tremonti: «Avendo avuto la ”fortuna” di aver previsto in anticipo la crisi, la priorità è andata alla conservazione dello Stato sociale. Che significa garanzia senza tagli della spesa sociale, pur in un contesto di crisi. Abbiamo deciso di non adottare la strada del deficit spending: sarebbe stato fatale. Non puoi dire ad un ammalato che gli dai meno medicine perchè è sceso il Pil. E lo stesso ad un pensionato. è per questo che al calo del Pil delle entrate fiscali corrisponde il deficit. Ma questo non è fare deficit spending: è investire sulla pace e sulla coesione sociale».

Basta poco, però, per dimostrare che l’investimento del governo assomiglia sempre di più al gioco delle tre carte, tanto conosciuto a Napoli, dove si sa il banco vince sempre e il povero giocatore rimette le penne.

 

Notiziesindacali.com 3/3/2010

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