Tra efficienza e spese


La relazione di quest’anno della Banca d’Italia sulla situazione dell’economia della Campania è destinata, in futuro, a essere riconsultata. E non solo, ci consentano i suoi estensori, per gli indubbi meriti intrinseci, quanto poiché essa ci fornisce uno spaccato pressocchè definitivo di un periodo: quello della politica regionale del centro-sinistra nell’ultimo decennio. Qualcuno lo definirà l’era del “bassolinismo”, annettendo, con il suffisso del neologismo, un implicito giudizio di valore negativo al suo artefice; qualcun altro lo assimilerà alla grande alleanza tra i grand commis della politica campana, includendo De Mita e i coniugi Mastella; di certo un periodo finisce. E di questo periodo la Banca d’Italia ci fornisce il rendiconto statistico, evitando, com’è sua consuetudine, esplicite valutazioni e, meno che mai, critiche.

Rapporto CampaniaMa l’ultimo decennio la Banca d’Italia ha in testa e con quello saremo costretti a fare i conti in futuro, per la semplice ragione che la direzione dell’economia regionale è passata al lato opposto della geografia politica. Si è trattato di un periodo in cui, alla continuità di gestione locale, hanno fatto da contrappunto numerosi elementi di cesura, nazionali e internazionali: il varo dell’Unione Monetaria Europea, l’alternarsi tra il governo Prodi e quello Berlusconi, i nuovi indirizzi di politica comunitaria, la crisi finanziaria di Wall Street e, dopo poco, quella sinteticamente riconducibile al collasso della Grecia, il ridimensionamento delle politiche verso il Mezzogiorno, il nuovo tornado dell’ottusa reiterazione del Patto di Stabilità sul bilancio, la recessione attuale.
In tutte queste vicende il governo dell’economia campana si caratterizzava per alcune costanti, i cui risultati ultimi sono le cifre che la Banca d’Italia ci fornisce oggi. Le costanti erano contraddistinte dalla separazione dei centri di spesa regionali in due filoni di rilevante entità e in altri due di ammontare più modesto. Al vertice vi erano i due grossi canali di spesa, la sanità e le infrastrutture di trasporto, seguiti, a notevolissima distanza, dai finanziamenti per le attività produttive e da quelli relativi al mercato del lavoro e alla formazione professionale. Un modello, diremmo, “semi-produttivistico” che coniugava le istanze di efficienza insite nella creazione di reti di trasporti e di sostegno alle imprese con la mediazione sociale della spesa sanitaria e dei corsi di formazione fantasma.
La Banca d’Italia, nemmeno sotto tortura, ammetterebbe questa lettura, ma, dai suoi dati, ne vediamo storture e, senza prevenzione, alcuni aspetti positivi.
Evitiamo al lettore l’ennesimo tedio sulle tragedie della sanità regionale, pur rimanendo nel legittimo sospetto che la drammatizzazione attuale abbia una non meritoria componente di delegittimazione della giunta appena sostituita e passiamo al vero dramma che la Banca di Italia ci sottopone nella sua immensa gravità: il mercato del lavoro e la disoccupazione.
Veniamo dunque a sapere, ma francamente non era una novità, che negli ultimi venti trimestri l’occupazione in Campania è calata 17 volte, su base annua, contro le 9 volte rilevate nelle altre regioni meridionali. Il nuovo disoccupato campano assume, oggi, un identikit drammaticamente preciso: è un lavoratore con meno di 35 anni, con un livello medio-basso di istruzione, cui non viene rinnovato il contratto a tempo determinato. La Banca d’Italia rivede, inoltre, la percentuale dei lavoratori “disponibili e inutilizzati”, aggiungendo ai disoccupati e ai cassaintegrati i cosiddetti “inoccupati scoraggiati”, ovvero i lavoratori che rinunciano a intraprendere azioni di ricerca del lavoro; in tal modo la disoccupazione arriva a oltre il venti per cento del totale e risulta aumentare progressivamente nel corso del tempo proprio per la diffusione dello scoraggiamento. Questi i risultati anche delle politiche del lavoro fin qui perseguite al tempo del flirt costante con i disoccupati dei vari progetti Isola.
Dall’altra parte la Banca d’Italia ci ricorda che un’ossatura di piccole e medie imprese regionali avevano iniziato una lenta opera di ristrutturazione e di ricerca di competitività internazionale, ma che la recessione e la politica di finanziamento dei grossi gruppi bancari hanno di fatto arrestato. Ancora: in Campania si è concentrato oltre un terzo degli investimenti nazionali nelle reti ferroviarie locali realizzati dal 2000.
Tutte buone notizie; ma il dramma sociale dell’occupazione rimane il fenomeno centrale non risolto, anzi aggravato, dalla vecchia compagine politica da poco sostituita al governo della regione. S’invertirà la rotta? Lo speriamo, anche se le prime azioni in favore della “formazione” ci fanno disperare.

Rapporto della Banca d’Italia sulla Campania

Ugo Marani
La Repubblica Napoli | 8 giugno 2010

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