Napoli, Leonia e il profeta.

Gianni De Falco, direttore Ires Campania.

 

Italo Calvino, il profeta. Lo so qualcuno, probabilmente un purista, ora storcerà la bocca, qualcuno riderà di me… pazienza.

Ma chi per ventura si trovasse a rileggere quel gioiello di letteratura creato dalla penna lucida e raffinata di Calvino che è  “Le città invisibili” (del 1972), si accorgerà che quanto ho affermato in apertura non è un azzardo. Nel descrivere la città di Leonia, una delle sue città invisibili, ci si imbatte nella descrizione che segue:

«Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifrici schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana (…). Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell’estremo crinale, immondezzai di altre città, che anch’esse respingono lontano montagne di rifiuti. Più ne cresce l’altezza più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari di anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Giù dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai».

Non risulta particolarmente difficile identificare oggi la Leonia calviniana con Napoli. Ho nella memoria una antica fotografia Alinari: rappresenta una città alle soglie della vita: sul lato sinistro, un cumulo di panni stesi e una porta aperta, a destra il popolo napoletano che aspetta di entrare, senza però riuscirci. È l’emblema di un popolo che cova nel suo profondo un eccesso di energie senza essere capace di canalizzarle in una forma.

In quell’energia informe ci si può credere, almeno in quella foto, è lì presente, pronta a salvare il mondo partenopeo lacerato con una sorta di altrettanto informe deus ex machina; oggi, scusate lo scontato pessimismo, risulta quasi inverosimile, forse addirittura storicamente mistificatorio.

Napoli continua ad esserci, ma è un po’ più marcia: la gente schiamazza incurante (come nel tempo degli Alinari, forse), e incurante riempie le sue buste del “dì-per-dì”, di “flor do cafè”, o di un altro supermercato, di umido e cartoni, e alluminio, e plastica.

Esclusa, e oramai del tutto ignorata o quasi, la triste grigia busta della monnezza, quasi che il “rifiuto” rifiuti (banale scherzo di parole…) la mesta, ingloriosa ed incolore fine (d’altra parte il grigio che colore è?).

E così la fine del rifiuto si accompagna alla busta, al sacchetto allegramente colorato o bianco (simbolo di castità e purezza, altro che grigio!) da cui, in realtà, proviene.

A Napoli il rito dello smaltimento dei rifiuti familiari diviene una “festa”, accompagnata solitamente dal “lancio” del sacchetto e, spesso, del suo botto e della sua esplosione con conseguente spargimento di tutto e di più.

Ma questo ancora è niente. Nel venire ad abitare in un noto e popolare quartiere napoletano mi ritrovai subito ad affrontare un problema annoso assai: il “conferimento” differenziato dei rifiuti. La prima volta pensai di chiedere all’informato giornalaio in piazzetta dove si trovasse il cassonetto della plastica e quello di rimando, tra il serio e il divertito: «‘o cassonetto d’a plastica?... Ma jettatelo lloco, dottò…». Indicando una sordida catena montuosa (Calvino) che si ergeva al di là dell’estremo crinale (sempre Calvino) di tre capienti contenitori già straboccanti di coloratissime e linde (bianche) buste di plastica ripiene di pattume.

Uno spettacolo orrendo, mortificante ma al tempo stesso impressionante nel suo “sovrastare” l’impotenza di un gesto quasi inutile in questa città.

Anch’io allora - proprio io che ho invitato tanta gente, e bambini, a non gettare la bottiglia di plastica vuota nell’umido - guardai il cumulo di monnezza generale che il giornalaio mi aveva indicato e, inorridito e al tempo stesso quasi ammirato e attratto da questo spettacolo e dal misterioso equilibrio che sosteneva la sordida catena montuosa, buttai lì quello che non dovevo buttare. Buttai, dunque, non conferii né lanciai.

«L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (sempre Calvino, sempre Le città invisibili).

Questa confessione di colpa per dirvi che se da un lato peccai di pigrizia e di soggezione, dall’altro compresi che il background socio-culturale in cui ogni giorno milioni di napoletani o fuori sede vivono, inesorabilmente tende ad inculcare quella cancrena del lassismo e della mala educazione di cui “questa” Leonia (Napoli) si ciba, di cui è l’emblema e di cui ho estrema vergogna.

«è un’innocenza ferita come un figlio» a fare di questa città una vaiassa dai tacchi alti e col rossetto sbavato che urla contro chi e cosa non si sa e che aspetta che quel chi o quel cosa possano salvarla. Ma a Leonia, ora lo so, è una attesa inutile…

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