Area orientale, quanti progetti sono rimasti lettera morta
Accompagnato da una folla di corifei e da frettolose promozioni accademiche fa il suo esordio sulla scena mediatica il progetto NaplEST-Viva Napoli vive. Si tratta di un progetto d’intervento mirante a trasformare e valorizzare la zona est di Napoli e che dovrebbe coinvolgere un’area vasta compresa tra i quartieri di Poggioreale, San Giovanni, Barra e Ponticelli.
L’appeal dell’iniziativa è, a prima vista, indubbio: 265 ettari di territorio, affidati al coraggio di imprenditori privati, senza ricorrere a finanziamenti pubblici, con una creazione di occupazione, a interventi maturati, di oltre 26 mila unità. Un passo inedito in una città in cui poco si muove senza la benedizione politica dei finanziamenti pubblici.

E tre passaggi di questo dibattito sono degni di menzione. In primo la straordinaria intuizione del progetto Tecnonapoli, forgiato nel 1989 in una ricerca nata dalla convenzione tra i chimici della CGIL e la Facoltà di Architettura dell’Università Federico II, con un’idea innovativa: la costruzione di un polo Tecnologico e scientifico (TecnoNapoli) per incrementare la ricerca e la competitività delle imprese regionali. Non se ne fece nulla: troppo poco lucrativo. E successivamente la proposta di Napoli 2 del vulcanico Cirino Pomicino, con la promessa di in immenso cantiere e di una manna di cinquemila miliardi di lire di finanziamenti. Con grande efficacia e saggezza gli risponderà, di lì a poco, Bruno Discepolo: “il vuoto istituzionale viene dunque occupato da chiunque sia in grado di proporre un qualsivoglia progetto che abbia un benché minimo contenuto (illusionistico): fa capolino la cosiddetta “urbanistica dei promotori”. Nascono così formule fortunate, dalla “città infinita” (una specie di megalopoli sottovuoto) ai “superluoghi” (contenitori concettuali multiuso per architetture firmate, residenziali e non residenziali) in grado di veicolare anche contenuti rilevanti verso finalità a dir poco deludenti». Il limite: quello opposto di Tecnapoli. E infine, nel 1997, il varo di Napoli orientale, società consortile per azioni, nata dal contratto tra Comune, Unione Industriali, Confcommercio, Confartigianato e IMI. Obiettivo: la rinascita e la valorizzazione dell’area orientale e il risanamento sociale del territorio. Risultati: nessuno; era tutto in mano alla politica.
Queste, in breve, le pillole di umiltà che la storia della zona orientale costringe, nessuno escluso, a deglutire: si pone l’enfasi solo sul contenitore, mai sui contenuti.
E veniamo ai trionfalismi di NaplEst. I fallimenti della zona sono riconducibili all’incapacità dei vari estensori di rispondere ad alcuni quesiti centrali, la cui elusione parrebbe invalidante dell’intero progetto.
Quanto l’iniziativa è in grado di ricevere un’adesione sociale che non sia ristretta ai meri interessi degli imprenditori che si apprestano a intervenire? Che idea si sono fatti essi stessi del futuro di una città che vive su commercio e pubblica amministrazione? Come si raggiunge la fantasmagorica cifra di ventiseimila nuovi posti di lavoro? Quali deroghe di cubature si richiedono al Piano regolatore della città? Che fine faranno i vecchi insediamenti tradizionali e artigianali del territorio? Si pensa che nuovi ipermercati, abitazioni residenziali, un po’(o un tanto) di verde e l’ennesimo palazzo della cultura o della musica siano la panacea per quartieri la cui dimensione civile è ai minimi storici? O, forse, la nuova occupazione sarà prevalentemente di vigilantes come nei resort dei Caraibi?
Ugo Marani
La Repubblia Napoli | domenica 13 giugno 2010