L’impietoso rapporto Svimez sull’economia meridionale

Gianni De Falco, direttore Ires Campania

A nulla servirebbe oggi rivendicare una primogenitura sulle previsioni dell’andamento dell’economia campana e meridionale. Oggi prendiamo atto, sfogliando il rapporto Svimez, della giustezza delle nostre analisi. Questo però non può tradursi nella nostra soddisfazione. Anzi.

La Svimez conferma un andamento dell’economia campana che colloca la Regione come fanalino di coda di una coda nazionale qual’è oggi il meridione d’Italia.

In poco meno di dieci anni, dunque, la Campania ha sostanzialmente modificato la sua dimensione economica e sociale: da regione guida di un Mezzogiorno che, dieci anni fa, dava segni di moderata ripresa recuperando addirittura qualche decimale sul Pil del centro nord, a “ultimo della classe” rappresentando un grave problema per l’intero Mezzogiorno che ne subisce le relative conseguenze.

Le colpe sono equamente distribuibili tra una politica nazionale che sempre più adotta, a fondamento delle proprie scelte politiche e strategiche, falsi stereotipi - come quello delle ingenti risorse investite nel meridione e sottratte al nord del Paese - dandone significato di analisi ed una politica locale sempre più incapace di produrre nuova classe dirigente, come purtroppo misuriamo proprio in questi giorni con l’incresciosa querelle tra Cosentino e Caldoro.

Ma, come si diceva una volta, mentre il medico studia l’ammalato muore. Questo, purtroppo, è il dato più rimarchevole di questa condizione…

Al di là del Pil, troppo difficile da spiegare per le sue ricadute e per la sua composizione e che comunque registra un arretramento del 5,4% a fronte di un 4,5% dell’intero Mezzogiorno, è il reddito delle famiglie il dato più immediatamente comprensibile per valutare, in senso generale, le condizioni dell’economia regionale.

È il reddito, infatti, a condizionare i consumi e questi, a loro volta, condizionano gli andamenti delle produzioni manifatturiere e di servizio, la capacità, quindi, di produrre o meno tessuti, abbigliamento, cibo, computer, libri, e così via. Ebbene il dato più clamoroso è che in Campania il 14,7% delle famiglie vive con un reddito inferiore a 12.000 euro annui, in soldoni meno di mille euro al mese.

Si tratta, complessivamente, di 307.000 famiglie e di un numero di componenti oscillante tra gli 855.000 e 880.000 cittadini in evidente stato di disagio, diciamo pure di povertà.

Il dato è assai significativo se lo confrontiamo con quello dell’intero Mezzogiorno (14%) ed il paragone diviene clamorosamente stratosferico se il dato di riferimento è quello nazionale (5,5%).

Non c’è reddito perché non c’è lavoro. Sembrerebbe una conseguenza naturale e infatti così è, il tasso di occupazione si riduce al 40,8% e il tasso di disoccupazione corretto viaggia al 25,2%, abbiamo perso dieci anni tornando a valori prossimi a quelli di fine secolo (1999). Come reagire a questa situazione?

Gli anziani sono oramai rassegnati, i giovani scappano, si trasferiscono in regioni in cui le occasioni di poter incontrare il lavoro restano più consistenti, recuperando anche una speranza di vita e di dignità sociale, e più favorevoli.

Nell’ultimo anno 46.100 campani, prevalentemente giovani, si sono trasferiti verso l’Emilia Romagna, soprattutto, e verso il più vicino Lazio; dal Mezzogiorno complessivamente sono emigrate 118.800 persone, i campani, quindi, rappresentano la fetta più consistente (38,8%). Negli ultimi venti anni dal Mezzogiorno si è spostata una popolazione di quasi 2 milioni e 300 mila unità, una intera provincia o una media metropoli.

Le condizioni sociali e di reddito della famiglia condizionano più ampiamente altri settori, tra questi quello dell’istruzione dove si registra un tasso di abbandono al primo anno delle scuole superiori pari al 13%. Ma non solo i dati quantitativi registrano segni negativi, anche la qualità della formazione nel Mezzogiorno risulta inferiore ai dati nazionali.

Un unico settore registra andamenti favorevoli al Mezzogiorno ed è la cosiddetta Green economy, quello delle energie rinnovabili. Quest’area, quindi, risulta quella maggiormente interessata a modificare il modello di sviluppo industriale del Paese.

La Svimez indica nel settore del «recupero edilizio e nella valorizzazione del patrimonio paesaggistico» le opportunità di «crescita per incrementare la competitività dell’area elevando e stimolando la domanda di innovazione».

Sarà… ma ho l’impressione che sia decisamente poco… anche perché in altra parte della relazione si sottolinea il processo di forte deindustrializzazione del meridione, si parla infatti di desertificazione industriale con «rischio estinzione».

Il mio amico Raffaele Pirozzi a questo punto mi chiederebbe: «che fare?» e, sinceramente, avrei molta difficoltà a rispondergli, non bastano infatti i rilievi del Presidente Napolitano sulle «significative inefficienze» ed il richiamo ad un ripensamento e ad una profonda modifica degli interventi di sviluppo.

Più radicalmente, ma anche più semplicemente, bisognerebbe rifarsi alla famosissima massima di Bartali: «l’è tutto sbagliato… l’è tutto da rifare…». Più seriamente potrei dire che i Governi tutti, quello nazionale ma anche quelli regionali e locali, debbano tornare a “fare” politica

Il distacco tra politici/politica e paese reale è sempre più netto; come è sempre più marcata la causa: i politici non sanno più cosa voglia dire “fare politica“, hanno smarrito l’umiltà di ammettere gli errori, si sono invece incaponiti nella lotta fra bande che ha trasformato il Parlamento e le piazze in un’arena in cui dirsi e farsi di tutto; hanno perso il senso di quel bene comune che dovrebbe essere alla base di qualunque azione di governo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

In questa fase l'attenzione di molti tra politologi e commentatori sembra focalizzarsi sull'antipolitica e sul suo crescente appeal. C'è chi la vede come un rischio imminente e chi invece - ed è la maggioranza - la percepisce già nella realtà vissuta in questi nostri tempi.

In generale le spinte antipolitiche sono effetti patologici e degenerativi la cui causa va ricercata nella crisi di legittimità dei partiti e nella loro scarsa capacità di governare i processi sociali e di definire un progetto di società. Il populismo si alimenta della crisi dei partiti ma anche altre istanze o 'produttori di senso' sono lì pronti a proporsi come alternativa. Poiché la crisi della politica è anche una crisi di valori, prima ancora che di efficacia, allora si spiega quanto l'attivismo di nuovi centri di produzioni di valori siano impegnate a soddisfare la domanda di senso.

Se la politica non riesce a risolvere la sua crisi, se le forze politiche tradizionali, di destra come di sinistra, non sono in grado di auto-riformarsi, se non ci si inventa una nuova ‘Politica della Politica’ allora i risultati non potranno che essere quelli illustrati dalla Svimez… e, per questo, non c’è da stare allegri…

 

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