La crisi della Pubblica amministrazione in Campania

caldbass_tA un quadrimestre, circa, dal varo della nuova giunta della Regione Campania ci pare necessaria una prima valutazione dell’impostazione di politica economica territoriale che essa pare avere imboccato. Non è, ovviamente, un esercizio facile, specie se condotto pochi mesi dopo la nascita del nuovo esecutivo. Il nesso tra le istituzioni e l’andamento economico si nutre assai poco delle dichiarazioni di rito sulla bontà delle intenzioni, sulla necessità di cambiamenti radicali rispetto al passato, specie se il nuovo protagonista appartiene a latitudini politiche opposte a quello del passato recente, sugli obiettivi conclamati di rigore della spesa e di qualificazioni degli interventi. La relazione istituzioni-sviluppo si alimenta, piuttosto, delle decisioni effettive, delle misure concrete d’indirizzo, dei segnali che a coloro che operano nel processo produttivo s’intende tangibilmente inviare. E in quest’ambito non ci pare che la pubblicistica locale si sia molto data da fare, probabilmente attratta dalle tensioni, dai dossier e dal “fuoco amico” tra i rappresentanti della maggioranza e intorpidita dalla mancanza di argomenti di una sinistra ancora saldamente affezionata alla pratica dei conflitti interni.

Non tutti si collocano in questo metodo comune dei due alvei politici paralleli. Ad esempio pochi giorni addietro, su queste pagine, il presidente degli industriali di Napoli Gianni Lettieri, intervistato circa le sue valutazioni sull’operato della Giunta Caldoro, ha rilasciato alcune dichiarazioni che, stranamente, hanno suscitato poche reazioni, anche da parte degli esponenti del centro-sinistra, ai quali il buon Gianni, consapevolmente o no, aveva eseguito un assist degno del miglior Cassano. Ma, scriveva Fabrizio De Andrè, le comari di un paesino non brillano certo d’iniziativa.

In ogni caso, cosa dichiarava Lettieri a proposito della nuova giunta? Egli esprimeva il parere che ci fosse oramai ben poco tempo per tentare, con l’ausilio della strumentazione della regione, di invertire le tendenze cicliche al ribasso; che la mancanza di slancio della giunta determinasse un’assoluta incapacità di ripensare una difficile rinegoziazione degli obiettivi di spesa dei fondi europei o di varare misure concernenti il credito d’imposta; che i tagli connessi con la sedicente osservanza del Patto di Stabilità siano permeati da una preoccupazione ossessiva; che gli accordi di programma siano colpevolmente trascurati. Ovvero: in poche righe molto più di quanto l’opposizione in Consiglio Regionale abbia fin qui prodotto. Non siamo mai stati troppo teneri con le posizioni in passato espresse dal presidente degli industriali napoletani; oggi, tuttavia, non è possibile negare che le sue valutazioni non siano del tutto condivisibili.

Sarebbe, però, il caso di fare un passo avanti e chiedersi se tutte queste deficienze non siano rinviabili a un unico fattore comune, ovvero a un’ipotesi interpretativa della società campana, la cui declinazione operativa da parte della giunta Caldoro determini il simultaneo insorgere di tutti i limiti che Lettieri sottolineava.

E forse il fattor comune esiste, e meriterebbe una trattazione non solo economicistica, ma permeata di elementi psicanalitici: Bassolino e il bassolinismo.

Evitando di personalizzare troppo quella che la storia della società campana ha evidenziato nel corso dell’ultimo quindicennio, è indubbio che il passato governatore, nel bene e nel male, abbia impersonato una modalità di gestione del potere e di accompagnamento dell’economia, della quale un avversario politico, frustrato da quasi due decenni di opposizione, è fortemente antitetico, ma, allo stesso tempo, inesorabilmente attratto.

Allora: quale migliore antipasto di politica economica che azzerare o tentare di azzerare il modello demonizzato? Il ruolo della Regione Campania, e delle sue affiliazioni dirette o indirette, era stato occupato dagli agenti all’Avana del governatore? Il personale che di questo modello di consenso e di gestione dell’economia era il soggetto attuatore poco aveva a che fare con i quadri strutturati della pubblica amministrazione ma giungeva con contratti a tempo determinato? Gli interventi sul territorio erano destinati a favorire la classe imprenditoriale omologa al modello del consenso?

Bene: si azzeri tutto. Basterà un’interpretazione, ardita sul piano giuridico ma d’innegabile vantaggio demagogico, degli effetti che conseguono agli sforamenti del Patto di Stabilità perché ordine e crescita ritornino, come per incanto. Anzi di più: si porti tale interpretazione alle estreme conseguenze. Si azzerino tutte i contributi professionali, si badi bene non le sole consulenze; si fermi la macchina degli interventi sul sistema produttivo; si arresti l’afflusso di fondi, peraltro in alcune istituzioni già messe a bilancio di competenza, anche a enti nevralgici come le agenzie locali di sviluppo. Muoia il vecchio sistema. Ora, con un progressivo spoil-system, ci pensiamo noi.

La realtà, purtroppo, è assai più articolata e complessa di quella che i nuovi amministratori credono o vorrebbero farci credere. Specie quella campana.

Lo sviluppo è una sapiente miscela di nuovi attori, di continuità con vecchie competenze, di cesure con il taglio d’inefficienze e di arbitrii che il politico, o almeno quello che ambisca a esser tale, deve saper discernere e selezionare. E intanto l’economia non aspetta: come una signora fatua e molto affascinante non sopporta che la si complimenti strepitando che la sua rivale ricorre alla chirurgia plastica.

Ugo Marani
La Repubblica Napoli | giovedì 23 giugno 2010 

[L’Articolo di Michele Saggese “Il coraggio di Naplest e il ruolo del Comune” è apparso su Repubblica Napoli il 22 giugno.]

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