Anno 2010. Fuga da Napoli (via Torino).

Gianni De Falco, direttore Ires Campania.

Non è il titolo di un film di fantascienza, né vuole scimmiottarlo. È la dura realtà di una analisi realizzata dalla Cgil Campania che ha sede, appunto, a Napoli in via Torino.

Tema della ricerca/analisi (presentata la settimana scorsa alla Festa della Cgil Campania a Torre del Greco) il rapporto tra l’organizzazione sindacale ed i giovani, quelli che fortunatamente già lavorano e quelli che sfortunatamente, pur avendo concluso con profitto i loro percorsi formativi, il lavoro ancora lo cercano qui a Napoli ed in Campania.

Per la verità coloro che restano a “casa”, cioè coloro che restano in Campania, sembrerebbero, alla luce dei numeri sull’emigrazione - sulla “Nuova emigrazione” - ben pochi.

I dati della Svimez sono impietosi se consideriamo che dal 1990 ben 2milioni, avete letto bene, 2milioni di giovani hanno lasciato il Mezzogiorno e quasi la metà erano campani. Dal 2000, da quando cioè ci si è resi conto che il problema andava valutato e monitorato, circa 80mila laureati hanno lasciato le nostre terre facendo ricchi altri territori, molti di questi in competizione con le aree meridionali.

I giovani vanno via, ora, anche prima di affrontare i percorsi dell’alta formazione offerta dalle Università. Si iscrivono alla Bocconi o alla Cattolica di Milano, alla Normale di Pisa, alla Sapienza di Roma, al Politecnico di Torino, e varie altre università tutte poli di eccellenza formativa né più né meno di eguali eccellenze universitarie che abbiamo qui a Napoli, in Campania e nel Mezzogiorno.

Qualcuno dovrebbe porsi una semplicissima e, tutto sommato, banalissima domanda: «perché?». E mi permetto di aggiungere: «perché nessuno lo fa?». Ho una risposta.

Anche questa semplice e banale allo stesso tempo: «perché tutti noi abbiamo chiare e pesanti responsabilità».

Molte risposte date al questionario che ha consentito di realizzare la ricerca sottolineano, rispetto all’organizzazione sindacale – qui la Cgil è chiamata direttamente e pesantemente in causa, ma credo che la questione riguardi tutto il sistema sindacale campano – che nel corso della sua storia ha dato risposte (buone o cattive, non saprei) più concrete sul piano della tutela e della difesa del lavoro che c’è, pensando, in questo modo, di mettersi al riparo da una crisi politica e di rappresentanza. Non è stato così.

I giovani hanno una visione semplice e chiara delle cose, riconoscono a questa organizzazione un valore di rappresentanza ancora valido ed in grado di svolgere il ruolo più proprio di “difesa” del lavoratore ma, al contempo, proprio questa dichiarazione anticipa quella che rappresenta un vero macigno nella ricerca: «il sindacato non fa nulla per i giovani e tutela solo i già garantiti». Ma il rilievo non si esaurisce qui.

«Il sindacato – questo dichiarano i giovani, sia che lavorino sia che no – è una struttura burocratica, ingessata in astrusi e complicati meccanismi decisionali e fortemente ideologizzato».

L’analisi è impietosa ma i dati, anche quelli sull’iscrizione, sembrano confermare questa interpretazione che comincia a farsi largo nelle visioni generali non solo degli under 30.

In realtà, dunque, non di fuga dal sindacato si tratta, ma dalla mancanza di interesse ad incontrarlo: indifferenza. Per certi versi è un fenomeno ben peggiore della fuga!

Negli anni passati il sindacato, e la Cgil in particolare, “aveva” ed “offriva” al tessuto sociale napoletano, campano e meridionale un “sogno” che coniugava insieme valori capaci di rivolgersi e dialogare con la società e con le varie generazioni - con i giovani, le donne e i disoccupati, con i lavoratori, gli stranieri e i pensionati – e progetti di largo respiro: sui Beni culturali (il futuro ha 3000 anni: il recupero del Centro storico di Napoli, il sistema museale campano, l’archeologia e il restauro), sull’area metropolitana (sulla sua perimetrazione, sul rapporto regione-area metropolitana, sulla riorganizzazione amministrativa del territorio metropolitano e regionale), sulle questioni razziali (un sindacato per genti di tutti i colori), sulla qualità della vita (vivere e lavorare nella zona orientale, la vertenza “Napoli”, il risanamento ambientale, il recupero delle aree dismesse), sulla formazione (su quella scolastica e su quella professionale, sull’alta formazione, sul life long learning, sull’occupabilità), sulle politiche industriali e di sviluppo (sulla delocalizzazione e sulla deindustrializzazione, sulla terziarizzazione, sui servizi, sui trasporti, sulla sanità).

Cosa rimane oggi di tanta storia? Perché oggi questi temi “sono storia” e non pratica quotidiana?

Se, allora, i giovani (senza più sogni) fuggono o ignorano il sindacato sarà ancora il caso di farci con coraggio quella semplice e banale domanda: «perché?».

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