Il Mezzogiorno e l'Unità mancata

tremonti_fitto_pLa matassa delle problematiche del Mezzogiorno, dal costituirsi dell’Unità d’Italia in poi, si dipana secondo dinamiche poco lineari e, solo riduttivamente, possono essere ricondotte alle certezze del determinismo storiografico e economicistico. L’alternarsi delle fasi di divergenza e di convergenza tra le due macro-regioni del paese s’interseca con quei momenti in cui la “questione meridionale” non assume solo priorità rituale nella gerarchia della politica economica nazionale ma diviene, nei fatti, un obiettivo realmente perseguito dalle classi dirigenti nazionali.

Si tratta, ovviamente, di avvicendamenti assolutamente poco speculari, poiché le fasi di disimpegno verso il Mezzogiorno della politica economica nazionale prevalgono, nettamente, su quelle di intervento consapevole e finalizzato.

Tuttavia la mancata considerazione dei periodi di “politica meridionalistica-convergenza territoriale” costituirebbe una scorretta rimozione poiché eliminerebbe dall’analisi quei fattori di successo che, seppur sporadicamente, hanno costituito pre-condizioni o fattori di attenuazione del mancato sviluppo delle regioni del Mezzogiorno.

L’individuazione dei mix virtuosi di brevi scorci temporali necessita, anzitutto, di un definitivo superamento di quei luoghi comuni che hanno minato, soprattutto sul piano interpretativo, l’efficacia e la prosecuzione di politiche economiche di stampo meridionalistico. E si pone solo l’imbarazzo della scelta dei luoghi comuni a fronte della constatazione che essi tendono vorticosamente a crescere nel corso del tempo addirittura, in modo quasi esponenziale nell’ultimo ventennio.

Proviamo ad accennare, per sommarie etichette, solo alle banalità più dannose divenute, oramai, slogan interpretativi comunemente accettati.

Il primo, il più macroscopico di questi ultimi, riguarda l’ammontare e l’inefficiente utilizzo dei fondi che sono stati destinati alle regioni meridionali. Si tratta di un leit motiv che ha riguardato momenti differenti della storia italiana del secondo dopoguerra, una sorta di autoassolutoria giustificazione al ridimensionamento dell’impegno verso le regioni meridionali.

Il sillogismo, nella sua essenza, veniva coniugato con solenne enfasi: poiché l’ammontare di risorse destinato al Sud è stato smisurato, ma l’utilizzo concreto dei fondi non è mai esitato in una reale inversione di tendenza, tale da innescare un continuativo processo di convergenza delle regioni meridionali al resto del paese, segue che il ridimensionamento delle risorse impegnate a tal fine non avrà, per definizione, effetti di collasso sulle regioni in ritardo.

E’ ovvio che si tratta di un sillogismo solo apparentemente ineccepibile da punto di vista strettamente logico, poiché dalla prima affermazione potrebbe discendere, come conseguenza,  l’analisi delle cause della presunta inefficienza; ma il sillogismo, come tale, si è tramandato nel corso degli ultimi decenni, spesso confortato, a posteriori, da presunte indagini economiche “neutrali” le quali associavano, come per incanto, spesa pubblica a spreco. Non che così spesso non fosse: l’economia politica del terremoto è troppo recente per non essere ricordata nella sua essenza di keynesismo politicizzato e criminale. Ma la generalizzazione, si sa, non è foriera di comprensione e finisce, secondo manicheismo, coll’omologare, ad esempio, comunità montane in riva al mare e grandi opere infrastrutturali viarie.

Il secondo macroscopico luogo comune deriva del primo, permeato dai medesimi dubbi di onestà intellettuale, riguarda l’applicabilità al meridione di un modello autopropulsivo di sviluppo endogeno locale, mutuato e scopiazzato dalle esperienze delle regioni centrali di distretti industriali di piccole imprese.

Il ragionamento, particolarmente in voga nel corso degli anni Novanta, si articolava per una serie apparentemente concatenata di affermazioni tanto indimostrate quanto esplicitate con sicumera: poiché il modello “Cassa per il Mezzogiorno” ha prodotto mega-infrastrutture inutili e costose e poiché la grande impresa a partecipazione statale si è rivelata inefficiente, deficitaria e responsabile della creazione di “cattedrali nel deserto”, tanto vale ridimensionare gli impegni a favore della piccola impresa indigena, portatrice delle competenze e dei bisogni del territorio. D’altro canto, aggiungeva la tesi in questione, il modello della grande impresa era sempre meno aderente al ruolo dei paesi europei occidentali nel contesto della nuova divisione internazionale del lavoro, che si caratterizzava per un peso crescente di finanza, terziario avanzato e di information technology ad Ovest e per manifattura standardizzata nel medio e nel lontano oriente. “Piccolo è bello” era lo slogan entusiata del nuovo paradigma delle scienze sociali, convinto che ogni territorio e ogni comunità presentasse potenzialità proprie di crescita, sacrificate dalla dipendenza dalla manifattura proveniente da fuori il Mezzogiorno.

Che poi, nel frattempo, tutte le poche indagini fuori dal coro ci avvertissero del contrario era del tutto irrilevante. La storia degli anni Ottanta e Novanta raccontava che i grandi paesi europei occidentali mai e poi mai si sarebbero “liberati” della grande impresa manifatturiera e non: la Gran Bretagna, sì, restava il centro finanziario per eccellenza, dopo la deindustrializzazione della signora Thatcher e prima del varo dell’Unione Monetaria Europea; ma Francia e Germania mantenevano imperturbabili i propri grandi stabilimenti nel settore dell’automotive, dell’energia, della metalmeccanica. Il decentramento riguardava le produzioni del tutto standardizzate la cui competitività era strettamente legata ai costi.

Nel Mezzogiorno, nel frattempo, al grido di “meno Stato e più mercato” e di una ritrovata centralità dello sviluppo locale, la cui estensione ondeggiava dalla piccola impresa artigianale alla sagra del fungo porcino, sino alla moltiplicazione di aree industriali inutili per ciascun campanile, si smantellava la grande impresa manifatturiera meridionale.

E il terzo luogo comune, quello più esplicito e liquidatorio, è il più recente, ovvero l’esistenza della cosiddetta “questione settentrionale”.

Se il linguaggio ha una propria simbologia, proporre l’esistenza di una questione primaria per le regioni del nord del paese non indica solo liquidare il meridionalismo come visione dualistica dello sviluppo economico e sociale del paese, ma indica qualcosa in più: il rallentamento della crescita del tessuto produttivo e imprenditoriale settentrionale, unitamente allo sfascio della finanza pubblica del paese, come conseguenza dell’aver pervicacemente tentato di far convergere le regioni meridionali al resto del paese. Quando una simile miraggio si sarà diradato allora le regioni settentrionali riprenderanno a crescere e la finanza pubblica registrerà meno propensione al disavanzo.

Ovviamente gli osservatori esperti della struttura produttiva italiana sanno con dovizia di argomentazioni che la crisi dell’economia del centro-nord poco ha a che fare con i presunti sperperi pubblici del Mezzogiorno, che oramai da tempo il flusso della spesa statale in conto capitale è strutturalmente indirizzata verso le regioni del nord e che il ristagno industriale dei territori storicamente dinamici è conseguenza dell’assenza di politiche industriali nazionali e del mancato adeguamento di competitività alle rigide regole dell’Unione Monetaria Europea.

Del tutto diversa appariva agli occhi di quei pochi meridionalisti che hanno avuto la ventura di guidare la politica economica del paese la connessione tra le due macro-aree dell’Italia.

Ciò è avvenuto per periodi ristretti, mai più dalla fine degli anni Settanta in poi, immediatamente prima e subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. In quella fortunata e irripetibile fase la strumentazione fu diversa e agì su più fronti: dapprima la nascita di un polo manifatturiero a partecipazione statale a seguito dei fallimenti bancari successivi alla Grande Crisi, successivamente la politica delle grandi infrastrutture e infine l’incentivazione all’ingresso di imprese del Centro-Nord nelle regioni meridionali.

Si trattava di policy diverse, ma tutte accomunate dalla convinzione che era il meridione a palesare le potenzialità e le contraddittorietà dell’accumulazione in Italia, senza superficiali contrapposizioni tra “questione settentrionale” e “questione meridionale”.

Il Mezzogiorno, era questa l’interpretazione realmente eterodossa, anticipava, con le sue contraddizioni, i limiti del paese: dunque intervenire non rispondeva ad alcun afflato caritatevole. Il meridione, solo fenomenicamente, si poneva come un caso di mancato sviluppo; a un’analisi più approfondita si palesava come la cartina di tornasole per il conseguimento di una crescita bilanciata della nostra economia.

La nobiltà intellettuale e il fervore sociale di un simile approccio sono, oramai, oggetto di un dibattito appetibile per la storiografia ma impensabile per il conformismo dell’Italia di oggi. Ma il ruolo “anticipatorio” del Mezzogiorno rimane, seppur in negativo: catalogato a peso nazionale e a fonte della nascita di un’inverosimile questione settentrionale, il Sud si limita a scandire il Medio Evo prossimo venturo della società italiana.

Un futuro di elevata disoccupazione giovanile, di precarietà diffusa, di retrocessione a potenza manifatturiera di secondo livello, di un settore pubblico avvitato in un circolo vizioso di alimentazione di spese di sussistenza delle quali ci si lamenterà e ci si allarmerà sempre più.

Ammettere in futuro l’esistenza di una simile connessione sarà, probabilmente, una magra consolazione.

Ugo Marani

[in corso di pubblicazione nella collana I Sedicesimi del Cirem per il 150° anniversario dell’Unità d'Italia]

 

 

 

 

 

 

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