Fincantieri le ragioni di una crisi senza uscita

fincantieri_pUn giorno forse qualcuno scriverà la storia della scomparsa del Mezzogiorno industriale. Quella dell’Italia è stata già, per grandi linee, tratteggiata da Luciano Gallino, quando aveva analizzato il decadimento dell’informatica, dell’aeronautica civile, della chimica, dell’elettronica e dell’high tech. Non si trattava di una storia canonica ma era, per certi versi, emblematica: un’impresa per ciascun settore a mo‘ di paradigma del declino industriale.

Se una operazione analoga fosse condotta per il Meridione, la Fincantieri potrebbe assurgere a standard di quello che era stato e che non è più; di una regione, la Campania, che aveva vissuto vizi e virtù della grossa impresa pubblica e che, oggi, non è in grado di riaffermare, in contesti e in cicli diversi, una presenza di solido radicamento e di robusta competitività. La vicenda recente di Fincantieri è semplice nella sua drammaticità: a seguito della crisi internazionale innescatasi nei mercati finanziari americani nel 2008, la contrazione della domanda mondiale di vettori navali ha determinato un eccesso di capacità produttiva della cantieristica. Oggi Fincantieri annuncia la chiusura degli stabilimenti di Castellammare e di Sestri Ponente, con il conseguente licenziamento di oltre duemilacinquecento lavoratori. il rilancio del sito produttivo di Castellammare è costituita da un adeguamento infrastrutturale che preveda la realizzazione di un bacino di carenaggio, il potenziamento del molo di attracco e dell’area storicamente preposta alla costruzione di cordami navali. Il costo complessivo dell’intervento si aggirerebbe sui quattrocento milioni di euro, cofinanziabile dall’Unione europea, con tempi di cantiere valutabili sui cinque anni. La vecchia giunta regionale, nel giugno del 2008, aveva stipulato un protocollo d’intesa con Fincantieri, con i Comuni di Castellammare, Torre Annunziata e Torre del Greco e con l’Autorità portuale e Dopo un paio di settimane di tensioni, proteste e barricate e a seguito della moral suasion del ministro dell’Industria, l’amministratore delegato Bono annuncia il ritiro del piano di ridimensionamento dell’occupazione. E la crisi? Poi si vedrà. E già una simile successione di accadimenti sarebbe paradigmatica dell’ordinaria follia con la quale sono affrontati i temi della struttura produttiva del Mezzogiorno. Ma, ahimè, gli elementi paradigmatici non finiscono qui. Iniziamo dalle infrastrutture. Da tempo è noto che la condizione necessaria per poi deliberato l’affidamento di uno studio di fattibilità. L’attuale giunta ha revocato tali delibere, in ossequio al Patto di Stabilità, senza che, a tutt’oggi, essa sia tornata indietro sulle proprie decisioni. Ma il problema non è tanto di burocrazia o di supposti vincoli fiscali, quanto di gestione dell’alea e del rischio. Ovvero: niente assicura che, una volta edificato il nuovo bacino di carenaggio, Fincantieri si assicuri commesse consistenti con l’attività in Campania. Ergo: la Regione non rischia, Fincantieri non assicura la permanenza in Campania. E lo stallo si protrarrà fin tanto che le commesse potenziali non saranno aggiudicate altrove. Ma, dubbi della Regione a parte, Fincantieri altro non fa che seguire un copione oramai abusato per quella che fu la grande impresa italiana: alla crisi della domanda globale si risponde con una contrazione dell’offerta aziendale, come se il ridimensionamento produttivo fosse, di per sé, capace di mantenere le vecchie quote di mercato. La realtà, la storia dell’industria ci insegna, è ben più complessa: gli shock da domanda sono la causa efficiente di fenomeni di ristrutturazione dell’offerta, di salti tecnologici, di modifiche di processo e di prodotto che il mondo della manifattura globale attraversa in ogni ciclo. E così è stato per la cantieristica navale: da almeno un quinquennio l’asse dell’economia marittima mondiale è costituito dalla guerra aperta tra Cina e Corea del Sud per la leadership mondiale dei costruttori navali. L’Ires Campania stima che nel 2010 la cancellazione di contratti per costruzioni di nuove navi ha raddoppiato il dato dell’anno precedente, mentre il mercato tende ora a orientarsi verso costruzioni del tutto diverse, ad esempio verso le navi off shore, ovvero le navi per l’energia. Per essere preparati sarebbe stato necessario un mix di lungimiranza del management, di ricerca e d’innovazione aziendale, di formazione e di qualificazione di parte del personale. Fincantieri non ha fatto nulla di tutto ciò: ha continuato ad assemblare splendidi salotti galleggianti, nei quali il valore aggiunto interno conta all’incirca per un quinto del fatturato e a perseguire la strada degli accordi internazionali, come quello di quattro miliardi con la Lockheed Martin per la costruzione di navi Littoral Combat ordinate dalla Marina statunitense, da costruire rigorosamente negli stabilimenti americani. Questo è tutto quello che riesce a esprimere un management dall’orizzonte semestrale in un settore che necessiterebbe di solide strategie almeno quinquennali. E meno male che il piano di Fincantieri di essere quotata in Borsa sia abortito, poiché avremmo assistito a un nuovo caso di scalata del modello Parmalat Lactalis. Oggi la politica, per ragioni di sedazione della reazione sociale, chiede a un modesto management di soprassedere ai licenziamenti, come se la rimozione del problema ne costituisca una risoluzione e come se una simile decisione possa apparire una tutela certa di quei posti di lavoro. Ma lo spazio di un mattino è breve da passare. La verità è che, con la cantieristica navale, sta scomparendo, dopo la siderurgia, la chimica, l’aeronautica d’avanguardia, un altro pezzo non già dell’impresa meridionale, ma dell’industria italiana. Quella vera, quella manifatturiera che gli altri paesi europei, anche i più avanzati, difendono con i pugni e con i denti.

 

Ugo Marani
La Repubblica Napoli | giovedì 9 giugno 2011

 

This content has been locked. You can no longer post any comment.

Cerca nel sito

Incontri

Fut Rem

 

.

 

Chi è online

 27 visitatori online