Il crollo sul lavoro nero.

Gianni De Falco, direttore Ires Campania.

 

Matilde controllava la filatrice, Antonella caricava la roccatrice, Tina, Giovanna e, forse, la piccola Maria cucivano. Tina non si capacitava del fatto che la sua professionalità valesse una paga oraria di soli 4 euro, Matilde non si capacitava del fatto che, pur lavorando come le altre dalle otto alle quattordici ore, la sua paga oraria era inferiore di cinque centesimi “cinque” a quella di Tina… alle 12 del mattino di lunedi 3 ottobre Matilde, Antonella, Tina, Giovanna e la giovane Maria hanno smesso di lavorare. Per sempre.

Nessuno pagherà i sedici euro a Tina, nessuno pagherà i quindici euro e ottanta centesimi a Matilde. Nessuno.

Matilde, Antonella, Tina, Giovanna e la giovane Maria sono morte. Sulla loro “fatica” e sulle loro vite è crollato un palazzo che ha travolto tutto e tutte.

«Lavoravano in nero senza contratto», raccontano i parenti davanti all'obitorio «Mia nipote prendeva 3,95 euro all'ora, mia nuora quattro euro - racconta la zia di una delle operaie - lavoravano dalle otto alle 14 ore, a seconda del lavoro che c'era da fare. Avevano ferie e tredicesima pagate, ma senza contratto. Quelle donne lavoravano per pagare affitti, mutui, benzina, per poter vivere, anzi sopravvivere».

Il crollo della palazzina di Barletta è un dramma nel dramma e porta sulle prime pagine la dura realtà e le tragiche condizioni del lavoro nero.

In ogni anfratto, deposito o sottoscala appena appena vivibile, magari senza finestre (meglio perché nessuno può vedere… e sentire…) e senza luce, può nascondersi una piccola fabbrica, un’officina, un laboratorio, insomma un buco dove qualcuno piazza macchinari magari vecchi, magari non sicuri, assume un po’ di persone disposte a lavorare in quelle condizioni, magari con una paga da fame (ma meglio poco che niente…), magari lavorando dalle otto alle quattordici ore. Magari in un vecchio e malandato palazzo in pieno centro che può collassare su quello schifo di vita e sul tuo lavoro che nessuno pagherà mai.

«è presto per dirlo, ma certo, per quello che sembra di capire, il laboratorio di confezioni potrebbe non essere stato a norma. Ora è il momento della rabbia, ma la condizione della sicurezza del lavoro qui è drammatica», così parlò Pietro Laboragine, segretario Filctem (sindacato dei tessili) Cgil Bat. è a lui che le donne di Barletta (di Andria e di Trani) vanno a raccontare dove lavorano quando decidono di rivolgersi al sindacato perché ormai non ce la fanno più. «è in quel momento che veniamo a sapere cosa c'è là sotto. Stanno anche in 10, in 12 metri quadrati, nei seminterrati, negli scantinati, nei sottani, anche nei garage. Non hanno contratti, sono pagate a 2,5 euro o 3, le operaie specializzate arrivano a guadagnarne 4 o 5. Se hanno contratti part-time, di due o quattro ore, ne lavorano anche undici».

Mi lascia senza parole la lettura della cronaca su “la Repubblica” «La Guardia di finanza sta acquisendo notizie sull'attività del maglificio, ubicato in un locale al piano terra dell'edificio, soprattutto per verificare la sussistenza dei requisiti previsti dalla normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro e dalla regolarità delle assunzioni». Passi l’acquisizione della documentazione sulla regolarità delle assunzioni (quali se lavoravano in nero?) ma sembra paradossale quella “verifica sulla sussistenza dei requisiti della sicurezza sui luoghi di lavoro” a crollo avvenuto!

Non so voi, ma personalmente continuo ad avvilirmi di fronte a queste notizie che lasciano senza parole. È un Paese strano il nostro. I controlli nessuno li fa… in vita, tutti li fanno post.

Il silenzio e la connivenza sono il “grande” problema della povera gente, quella che vorrebbe lavorare certamente con un contratto dignitoso, un salario commisurato e giusto, con la dignità di uomini o donne e che invece, in questo Paese deve, in talune condizioni, accettare il lavoro in nero, con salari da fame non per vivere con dignità ma, come afferma la zia di una delle ragazze morte a Barletta per «sopravvivere».

Questo Paese tollera queste condizioni, nasconde la sua realtà. Lo ha fatto e lo sta facendo rispetto alla crisi che attanaglia la nostra economia.

Il mio lavoro è quello del ricercatore, il nostro istituto ha realizzato uno studio per valutare il peso reale del lavoro irregolare nella nostra economia. La stima ricavata è lontana, molto lontana, da quella che l’Istat ha presentato al Governo.

L’istituto nazionale di statistica arriva al calcolo della stima partendo dagli aggregati di contabilità nazionale, studi e dati fiscali, stime su Iva e Irap, insomma tutto un armamentario tecnico scientifico di formule e formulette che porta alla seguente conclusione: il lavoro irregolare (dentro c’è anche il lavoro nero) in Campania è stimato al 16,2% in continuo e costante calo dal 2002…

Non so voi, ma io in Campania abito (a Napoli!!!), lavoro, vivo… e sento… e vedo. Non so voi, ma io a quella stima ci farei volentieri una pernacchia alla don Ersilio Miccio con tanto di dedica al duca Alfonso Maria Sant’Agata dei Fornari.

Il nostro istituto non ha la possibilità di quantificare e calcolare gli aggregati di contabilità nazionali ma molto più modestamente ha intrecciato i dati riportati dalle varie autorità competenti in materia di controllo sul lavoro: la Polizia di Stato, gli Ispettorati del lavoro, la Guardia di Finanza e così via. La proiezione in termini di stima del lavoro irregolare ci porta a ritenere che il dato si avvicini al 30%, praticamente il doppio.

Bisognerebbe aprire una discussione seria sui metodi e sulle qualità delle produzioni statistiche in Italia. Per completare il quadro, e per bere l’amaro calice sino al fondo, l’ultima rilevazione statistica afferma che cresce l’occupazione e diminuisce la disoccupazione…

Non so voi, ma io… continuo a pensare a don Ersilio Miccio.

Molti istituti di ricerca hanno dovuto ricorrere, in questi anni, alla distinzione dei dati introducendo un elemento di valutazione “percepito” rispetto al “reale” dove il “percepito”, chissà perché, è stato adottato da tutti gli esperti e studiosi come “reale”

Tina Ceci, Matilde Doronzo, Giovanna Sardaro, Antonella Zaza e Maria Cinquepalmi sono morte sul serio, sepolte dalle macerie di una costruzione fatiscente, che custodiva nello scantinato  l’opificio dove lavoravano.

Quelle macerie sono il simbolo dell'economia del sommerso che dilaga, e nella quale sprofondano le famiglie alle prese con la crisi che per l’Istat e per il Governo non c’è, o almeno non c’è stata fino alle ore 12 di lunedi 3 ottobre.

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