La politica dei fatti

24_ottobre_sUn Mezzogiorno in crisi non è certo una novità. Ma con una simile asprezza e in un contesto nazionale e internazionale di una tale gravità probabilmente si.

La recessione innescata dalla finanza statunitense e la sua propagazione a un’Unione Monetaria Europea incapace di escogitare politiche che non siano meramente recessive si ripercuote, oramai per il quarto anno, sulle regioni a crescita più lenta in Europa e specie su quelle meridionali.

Non è questa l’occasione per discutere la lungimiranza e la coerenza della politica economica nazionale e comunitaria. Di certo la crisi sancisce il mancato operare di taluni meccanismi che, in un recente passato, avevano costituito una sorta di cuscinetto ammortizzatore della propagazione di cicli negativi nel Mezzogiorno.

 

In breve: accadeva, sino alla fine degli anni Novanta, che le distanze relative tra Nord e Sud si attenuassero in fasi di bassa o nulla crescita e si amplificassero di nuovo quando la ripresa s’intensificava. Era, a dire il vero, una modalità un po’ grottesca di riduzione delle divergenze, ma era quanto passava il convento. La ragione era chiara: una macroregione meno sviluppata e caratterizzata da una minore apertura agli scambi internazionali soffriva meno della contrazione del scambi.

 

Oggi, ahimè, anche questo piccolo palliativo è venuto meno: nell’ultimo triennio l’andamento di produzione, di occupazione e di investimenti cala a Sud più che nella media del paese. E il dato ancor più preoccupante è che la performance negativa è significativamente spiegata dalle sue regioni più “robuste”: Campania, Puglia e Basilicata.

Il primo effetto, e la Svimez su di esso si sofferma ampiamente nel suo ultimo Rapporto, è l’incancrimento di una questione occupazionale giovanile meridionale, la cui gravità è pari all’incoscienza della sua dimenticanza da parte delle istituzioni. Se n’è ricordato, talvolta l’oramai prossimo Presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, salvo poi, egli stesso, “suggerire” al governo italiano una politica di stabilizzazione recessiva e iniqua. A essere esclusi dal mercato del lavoro sono, oggi, anche i giovani laureati e specializzati e non solo quelli a bassa formazione professionale, con il risultato perverso di uno spreco di cervelli che travalica l’economia per sconfinare nell’insopportabilità morale.

È come se oggi la crisi nel Mezzogiorno sia l’aspetto fenomenico di un concatenarsi di lucide e consapevoli follie che poco rimandano alla causalità degli accadimenti quanto alla miopia di politiche economiche che, nell’ortodossia del rigore e del risanamento, anelano improbabili rimedi salvifici.

La catena è allarmante: da un’Europa che riesce a ipotizzare solo drastiche compressioni dei disavanzi pubblici si passa a finanziarie nazionali che all’iniquità dei tagli lineari demandano il compito di tranquillizzare la speculazione, per arrivare a regioni, come la Campania, che non riescono a produrre altro che onirici Piani del Lavoro nei quali la panacea non è tanto la ripresa della domanda di lavoro quanto un po’ di formazione e di avviamento professionale.

Forse sarebbe necessario che, invece di occuparsi di tagli e di spread dei titoli pubblici, la politica economica si occupasse un po’ più di crescita, ovvero d’incremento delle grandezze reali quali il prodotto, il reddito, gli investimenti e l’occupazione, smettendo di pensare che il prius sia la tranquillità e la fiducia dei mercati finanziari.

Solo così il Mezzogiorno potrebbe riacquistare una perduta centralità: l’economia italiana non può crescere se non potenzia il proprio settore industriale; il potenziamento del settore industriale italiano non può che avvenire nelle regioni meridionali, con buona pace di chi s’illude che le fabbrichette venete tirino ancora e siano la struttura portante del capitalismo italiano.

È intuibile quanto tali affermazioni vadano riempite di contenuti in termini di politiche industriali e di coerenza di comportamenti di un sistema bancario, quello italiano, miracolosamente sopravvissuto ai test di solidità finanziaria e ancora avulso alla vecchia, saggia politica di affido e di finanziamento dei settori produttivi.

Illusioni? Forse, ma carezzarle è probabilmente l’unico modo rimasto per cercare di portare a coerenza una trinità oggi inconciliabile: risanamento, equità e crescita.

Di tutto ciò si cercherà di dibattere nel seminario che si terrà domani alle diciassette nell’Antisala dei Baroni del Maschio Angioino e nel quale Ires Campania invita Svimez e Unione Industriali di Napoli a discuterne con la stampa economica specializzata.

Ugo Marani

La Repubblica Napoli | domenica 23 ottobre 2011

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