Scenari possibili nel Mezzogiorno

supermario smallLa valutazione dei possibili effetti di un Governo Monti sull’economia meridionale dipende da una serie di ipotesi cui non è possibile dare risposta oggi.

Immaginiamo, tuttavia, che esse siano soddisfatte, e cioè che un tale esecutivo sarà varato, che esso godrà della fiducia del Parlamento e che abbia il tempo necessario per varare le misure caratterizzanti del suo programma di politica economica. In tal caso è possibile ipotizzare che il Mezzogiorno goda, nell’immediato, di un paio di effetti positivi indiretti di non facile quantificazione.

Il primo attiene alla composizione del disavanzo pubblico: come si tralascia spesso di ricordare, il bilancio dello stato italiano si caratterizza, oggi, per uno strutturale avanzo primario, ovvero per un sistematico eccesso della tassazione sulla spesa pubblica, che deve compensare il disavanzo derivante dagli oneri finanziari, determinati dall’ammontare dei titoli del debito pubblico in circolazione e dal tasso d’interesse su di essi corrisposto.

Se, come tutti i commentatori prevedono, una maggiore autorevolezza del governo arresterà la corsa alla crescita dei tassi interesse italiani e, dunque, degli oneri finanziari, sarà necessario un minor incremento dell’avanzo primario per compensare la tendenza alla crescita del disavanzo complessivo. Dunque saranno necessari minori tagli “reali” per evitare l’instabilità. E poiché tutte le manovre finanziarie attuate nel 2011 dal ministro Tremonti avevano profondamente ridimensionato i flussi di fondi alle regioni meridionali, e in particolare quelli destinati agli enti locali, Comuni e Regioni, la maggiore credibilità dell’esecutivo dovrebbe tramutarsi in un “mancato costo aggiuntivo”. Non è tanto si dirà, ma, con i tempi che corrono, sarebbe opportuno non sottovalutare quella che potrebbe apparire solo una congettura contro fattuale.

Un secondo elemento altrettanto ipotetico, ma non meno rilevate del primo, è costituito da un eventuale ridimensionamento di un rosario di luoghi comuni che, solo per brevità, definiremo il “teorema Lega”. Tale teorema è declinato, di solito, secondo una concatenazione del tipo: al Mezzogiorno sono destinati flussi ingenti di fondi; tali fondi sono adoperati poco efficacemente, se non addirittura sprecati; le regioni del Nord, industriose e laboriose, sono pertanto penalizzate nelle loro ampie potenzialità di crescita.

È, forse, intuibile la vacuità di un simile argomentare specie laddove si dipinge il nord del paese come un territorio industriale ricco ma sacrificato, più omologo a Monaco di Baviera che a Pomigliano. Banalità che sono riuscite, in ogni caso, a invertire il flusso dei fondi, dei finanziamenti e delle infrastrutture verso le regioni a maggior reddito pro-capite.

Ma maggiore credibilità e minore effetto Lega non possono esaurire la componente meridionalistica del governo Monti, se mai esso dovesse essere partorito. Sarebbe, in questa sede, ripetitivo accennare ai triti problemi che affliggono la società meridionale e campana. Chi volesse riprenderli, sia pur per sommi capi, può dare un’occhiata all’ultimo aggiornamento sulla situazione della nostra regione, com’è stata crudamente raffigurata dalla Banca d’Italia qualche giorno fa: si contraggono i piani d’investimento delle imprese; diminuisce il numero di occupati e aumenta quello degli inattivi, anche di quelli forniti di laurea; aumentano i prestiti bancari con difficoltà di rimborso. Nulla di nuovo, certo; anzi, tutto abbastanza vecchio da rischiare la cancrena, ma, per fortuna, non la perdita della speranza.

E poiché pensiamo che la politica economica cammini sulle gambe degli uomini e delle loro idee, ci piace vagheggiare un nuovo governo, che, del suo leader assuma l’impronta liberale e non liberista, e cioè non quella propria della più esasperata matrice bocconiana di Alesina e di Giavazzi, o quella della della finanza e della speculazione.

Ci piace, dunque, immaginare che esista una cultura liberale che sia in grado di guardare ai problemi del Mezzogiorno senza pregiudizi, con gli occhiali della meritocrazia verso i suoi giovani, della comprensione dei problemi reali dei suoi (non molti) veri imprenditori, dei costi etici dell’esclusione sociale.

Grandi economisti liberali appoggiavano, all’inizio del Novecento, scioperi e rivendicazioni sociali lottando contro gli oligopoli e le ingiustizie. Ci piace fantasticare che non si tratti di una razza estinta.

Ugo Marani

la Repubblica Napoli | martedì 15 novembre

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