Osservazioni sul metodo di De Magistris
In questi giorni su “Repubblica” si sta sviluppando un dibattito a più voci sul lavoro svolto dal sindaco de Magistris e la sua giunta. Vorrei intervenire in questa discussione riflettendo sul metodo che il sindaco sta adottando nel prendere le sue decisioni. Attualmente Napoli è una città con un’identità sociale e politica debole e incerta. Lo stanno a dimostrare due cose: la latitanza della politica che ormai da tempo è incapace di offrire luoghi strutturati per la partecipazione dei cittadini al governo della città, e l’insufficienza di movimenti e associazioni che non riescono a diventare “città governante”. Fare comunità è importante quanto amministrare. Questo compito spetta a una pluralità di soggetti: sociali, politici, istituzionali e culturali. Una metropoli è servizi e produzione, ma anche senso di sé, immaginario collettivo, espressione di un pensiero positivo che nasce dalla possibilità di farcela insieme.
Luisa Bossa scrive su “Repubblica” che un sindaco deve soprattutto fare; credo anche io che questo sia il suo compito principale, ma in che modo decide è altrettanto essenziale. De Magistris è un mix di radicalità e pragmatismo. La sua giunta è composta da “assessori-formica”, ai quali è richiesto di lavorare più che apparire, rinunciando a quella quota di narcisismo che ogni funzione pubblica porta con sé. Il leader è lui: interlocutore unico per la città. È del tutto evidente che un tale modo di procedere può entrare in rotta di collisione con i tradizionali organismi rappresentativi e le consuete forme di mediazione sociale. Si può rispondere a tutto questo evocando sic et simpliciter un ritorno a un passato che vedeva partiti forti e istituzioni deboli e sindaci opachi? No. La strada è quella di una seconda ricostruzione che parta dai luoghi della politica, che devono intraprendere un percorso di rinnovamento non di facciata. Democrazia nei partiti o dei partiti? Meglio iniziare nei partiti, sapendo però che essi non rappresentano tutta la filiera democratica di una città che è fatta anche di corpi intermedi rappresentativi, associazioni qualificate, movimenti autorevoli, circoli di qualità. Questa rete è la sola che può bilanciare il decisionismo e la tentazione di “fare a meno” che può prendere chi amministra con un larghissimo consenso popolare. Dopo diciassette anni sarebbe il caso di rivisitare la legge sull’elezione diretta dei sindaci. A tal proposito vanno bilanciati meglio i poteri del sindaco rispetto a quelli della giunta e del consiglio comunale. Il consiglio comunale deve essere la sede nella quale si esprime la sovranità dei cittadini. Oggi non è così: il consiglio è decisivo solo in occasione dell’approvazione del bilancio e del piano regolatore generale, casi in cui può con il suo voto portare allo scioglimento dello stesso. Serve poi un decentramento vero. Oggi, infatti, le municipalità hanno poche deleghe e pochissime risorse. Se chiudessero, nessuno se ne accorgerebbe. Messa a punto la catena istituzionale, si potrà passare all’organizzazione delle forme di democrazia diretta e/o partecipata. L’esempio più calzante è quello delle assemblee di popolo, che devono avere regole certe di funzionamento (iter delle loro proposte, modalità di organizzazione, referendum consultivi, sperimentazioni di quote di bilancio partecipato.) Senza queste, esse possono essere addirittura dannose perla crescita sociale e civile della città.
Paolo Giugliano
la Repubblica Napoli | venerdì 9 marzo 2012 | La parola ai lettori