Il Mezzogiorno dentro la crisi. Mutazione sociale, povertà ed esclusione.

 

di Giovanni De Falco.

 

Gianni000Senza alcun dubbio, il Mezzogiorno è molto cambiato negli ultimi anni. Ha mutato contorni e natura, così come nel suo insieme oggi l'Italia è diversa dal passato. Si sente che si è chiuso un ciclo.

Tuttavia, questo cambiamento, anziché incanalarsi sui binari della legalità e del controllo politico e sociale ha deviato, prevalentemente, verso quell'economia sommersa che allo stato attuale, venendo poco alla volta in superficie, dà vita a nuovi poli di sviluppo, ad aree di espansione che possono essere paragonate a quelle delle regioni settentrionali. Tutto ciò, naturalmente, senza alcuna regola.

L'economia sommersa darebbe lavoro nel Mezzogiorno ad oltre un milione di addetti (l’Ires Campania stima nella sola regione campana in circa 350mila gli addetti irregolari). Questa economia, pure attraverso forme spesso distorte e condannabili, tuttavia rappresenta un altro aspetto della "contraddizione meridionale": se da un lato concorre a risolvere tensioni e a soddisfare bisogni, dall'altro invita a una "fuga dalla politica e dalla socialità". E in particolare, ragionando in termini puramente economici, mette in crisi la politica meridionalistica, che per anni ha fatto propria la convinzione della "sterilità imprenditoriale" del Sud.

«Forse non ci si rende conto – afferma Paola De Vivo, sociologa  – che c’è un mare di giovani che, quando ha la fortuna di trovare un lavoro, lo fa per due soldi. La paga di un ragazzo, di una ragazza che lavora in un esercizio commerciale, a Napoli e nell’hinterland, troppo spesso non va oltre i 500 euro al mese. Questa è la realtà».

Riprendendo questo tema Gabriella Gribaudi, sociologa, sostiene che «siamo tornati terribilmente indietro, a una situazione in cui l’allargarsi della disoccupazione e l’impoverimento, insieme all’assenza dello Stato, producono sempre più facilmente il passaggio all’illegalità».

Prendono avvio da questi dati di fatto i discorsi sul futuro del Sud, sul cambiamento che occorre operare nei metodi, nella gestione del potere, e quindi negli strumenti da impiegare.

Al di là di questo – della discussione sull’esistenza o meno di una seppur aggiornata questione meridionale – restano nel Sud del paese problemi giganteschi. Come il quadro di disgregazione sociale in cui l’impresa è costretta muoversi.

«Prima – osserva Ugo Marani, economista presidente dell’Ires Campania – il confine era tra chi ‘faticava’ e chi no. Oggi il confine si è fatto assai più labile. Oggi il passaggio alla disoccupazione e alla povertà è una minaccia che grava su un numero sempre più grande di persone. Con l’emergere di due fenomeni assai preoccupanti: l’emigrazione, la fuga verso altri lidi delle forze di lavoro maggiormente scolarizzate, l’assenza di speranza per i ventisette-ventottenni, per tutti quei giovani, in sostanza, che finito il classico percorso università, master, magari un secondo master e via discorrendo, non trovano uno straccio di lavoro».

Lo spunto iniziale sulle riflessioni qui proposte è dato dalla constatazione dello scarto rilevante (e molto mascherato nel dibattito pubblico, e in parte anche in quello scientifico) tra premesse delle politiche e delle strategie e condizioni locali: si tratti di amministrazione pubblica, di governi locali, di cultura d'impresa, di reti di cooperazione.

«L’altra faccia di tutto questo – continua Paola De Vivo – è un fenomeno preoccupante: la progressiva scomparsa del ceto medio e, insieme, la fragilità della società. Lo sforzo di questi anni è stato appunto quello di far crescere una società civile; se si vuole: il capitale sociale. Il fallimento è anche responsabilità degli intellettuali. Nel Sud, mentre si impegnavano tante energie per cambiare, abbiamo avuto il formarsi di un ceto di professionisti cresciuto intorno alle consulenze. Le consulenze naturalmente servono, non vorrei essere fraintesa. Ma se la consulenza è scambio, non si costruisce nulla».

Sotto questo profilo, critico e propositivo, è necessario lanciare un accorato appello ai decisori e ai responsabili politici perché stiano più attenti a quello che fanno, e lavorino a una più corretta e più valida tematizzazione dei termini del problema. E non ci sono emergenze che tengano, perché una delle cause dell'attuale questione istituzionale è proprio la politica dell'emergenza permanente irrimediabilmente collegata al “partito della spesa” (al suo controllo a fini di mera gestione del potere).

Il nostro Mezzogiorno - come tutti i Sud del mondo - merita di rientrare in agenda nei suoi propri termini, e di questi sarebbe bene che almeno le autorità pubbliche avessero idee più precise, cercando di sottrarsi alle idee ricevute (non fare impresa, ma quale impresa è il problema), agli slogan facili (mobilità e flessibilità, predicate a un Mezzogiorno che è in così larga parte ai margini di ogni regola e regolarità) e agli “autogol” probabili (patti e contratti e denari pubblici per progetti non sufficientemente qualificati in termini di potenziali di sviluppo).

Il futuro del Mezzogiorno ha bisogno ancora del "soggetto Stato", nessuno lo nega. Ma ancor più richiede e coinvolge la presenza e l'iniziativa degli operatori (amministrativi, sindacali, imprenditoriali, e via dicendo).

Il nostro Paese ha attraversato, in anni recenti (comunque prima della fase recessiva attuale),  una fase di ripresa economica che, per durata ed intensità, è stata tra le più importanti dell'intero dopoguerra. Tuttavia la situazione di dualismo dell'economia nazionale si è ben poco modificata e le differenze sociali (stato, coesione e povertà che in pochi anni ha quasi raddoppiato le sue stime) hanno marcato, ancor più dell’economia, strazianti lacerazioni e differenze.

Il Mezzogiorno, dunque, rischia di rimanere escluso da ogni processo di sviluppo se venissero meno le necessarie politiche tese al raggiungimento di un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile.

 (4. continua)

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