Il Mezzogiorno dentro la crisi. Cultura e sviluppo ai tempi del federalismo.

 

di Giovanni De Falco.

 

Gianni000C’è una nuova cultura meridionalista che sembra farsi largo, è quella della rappresentazione. La penna e l’immagine, oggi, colpiscono molto più delle “chiacchiere” della politica, ‘guardare per credere’ alle performance letterarie di Andrea Camilleri o Roberto Saviano, per citare i più recenti fenomeni tradotti anche per immagini al cinema ed in televisione.

Ma basterà questo per aprire una fase di riflessione sul Mezzogiorno ed i suoi disagi, le sue paure, i suoi drammi? «A volte le rappresentazioni letterarie, cinematografiche e televisive – afferma Carmine Donzelli, editore – offrono una rappresentanza di valori molto più efficaci di quelle economiche e sociali che ne danno una rappresentazione aggregata e difficilmente comprensibile».

Davanti ad un problema complesso la tentazione di rispondere semplificando è grande. Invece bisogna fuggire dalla tentazione della semplificazione e prima di azzardare proposte avere la pazienza di ragionare usando anche i dati.

Nell’epoca della comunicazione e dell’immagine chi tenta di utilizzare questa metodologia in verità sembra, alla fine, dar fastidio perché obbliga, chiunque governi, a misurarsi con la realtà dei fatti (dei numeri) che, in alcuni casi, sembrano dare risultati impietosi.

«Le classi dirigenti regionali – nota ancora Donzelli - non hanno più ‘corsus honorum’, la stagione dei sindaci, che pure nel Mezzogiorno aveva suscitato speranze, va scemando rapidamente e lo stesso sindacato dovrebbe interrogarsi se le sue classi dirigenti siano immuni da condizionamenti localistici».

La commistione tra chi governa e la cosiddetta classe intellettuale meridionale pare non offrire più le opportune analisi critiche che hanno aiutato e contribuito, nelle fasi iniziali della stagione dei sindaci, ad intravvedere una speranza di rinascita.

La progressiva inclusione degli ‘uomini di pensiero’ nella spirale della politica sembra aver rinsecchito le capacità di elaborazione traducendo ogni agire in mero calcolo di convenienza (politica e, in alcuni casi, di parte).

«Visto lo stato della discussione – afferma Adriano Giannola, docente di economia a Napoli e presidente della Fondazione Banco di Napoli  bisognerebbe chiedersi a cosa serve il Mezzogiorno. Se si è convinti che esso serva ancora a qualcosa, e se si è convinti che una ‘questione meridionale’ persista e che resti a tutt’oggi irrisolta, allora è necessaria una politica ‘altra’, un generale rinnovamento delle classi dirigenti”.

Il tema del rinnovamento delle classi dirigenti e della loro qualità è un tema ricorrente che, ricorderete, ha rappresentato una costante nella discussione sul Mezzogiorno.

«La società meridionale – osserva Giannola – mostra di avere oggi ‘regole’, diciamo così, diverse rispetto al resto del Paese: una conseguenza della malapolitica e della cattiva amministrazione, certo, ma anche della filosofia che ha governato la nuova politica di programmazione dal 1992 in avanti. Quella politica partiva da presupposti errati, dall’idea che potesse funzionare anche nel Mezzogiorno la filosofia dello sviluppo autocentrato e della terza Italia: i risultati che si sono visti dal ’98 in poi sono sotto gli occhi di tutti».

In questo contesto si inserisce la volontà politica di modificare lo ‘status quo’ dell’ordinamento politico nazionale sulla spinta, convinta, dei movimenti politici del nord del Paese (e non solo). Lo Stato Federalista viene indicato come ‘soluzione’ ai differenziali di sviluppo tra il nord ed il sud, ma è anche fortemente sostenuto con la convinzione, falsa, di poter rendere competitiva l’area nord del Paese con le altre regioni dell’Europa.

Un Federalismo ‘imposto’ dai poteri forti e dominanti in questa nazione e nel quale il Mezzogiorno si rappresenta come area debole, come ‘palla al piede’ anche del nuovo sistema riformato.

Il mio compianto amico Antonio Iannello - architetto, ambientalista e fine intellettuale - ben spiegò e svelò nel suo libro, pubblicato postumo, “L’inganno federalista” il processo di riforma sostenuto, all’epoca, soltanto dalla Lega Nord.

Quel processo è stato ripreso dal Centro-destra nell’ultima campagna elettorale, le intenzioni di riforma si fondavano su un disegno di legge proposto dalla Regione Lombardia. Questo disegno, se fosse stato attuato così come proposto, avrebbe portato il Paese ad una rottura dell’unità nazionale. Sebbene quella proposta sia stata riformulata risulta ancora non convincente.

«Certo – osserva ancora Giannola – il decreto legge del governo è molto annacquato rispetto alle intenzioni iniziali. Ma i problemi, proprio a causa della vaghezza, restano tutti. Sulla perequazione, ad esempio, così come sulle politiche aggiuntive o la questione dei costi standard dei servizi, che pure sembra meglio impostata. Insomma a me sembra una conversione tattica, con segnali per altro verso pericolosissimi. Prima c’era il discorso certo preoccupante dell’Iva regionale, adesso si punta sull’Irpef e questo peggiorerebbe ancor di più la situazione».

La preoccupazione su come potrà essere attuato il decreto è ancora più sentita per via della oggettiva debolezza dell’opposizione e per via di una rappresentanza politica e parlamentare del Mezzogiorno assai scadente.

Voglio chiudere quest’ultimo articolo dedicato ai lavori del seminario “Il Mezzogiorno dentro la crisi” con le parole del Presidente Giorgio Napolitano «pesano sullo sviluppo di tutta l'area difficoltà e problemi con cui ci si deve misurare», nel citare dati certificati dalla Banca d'Italia sulle differenze di sviluppo tra Centro-Nord e Sud, il presidente Napolitano ha sottolineato che «non si può non trarre da ciò materia di seria riflessione sulle politiche portate avanti nell'ultimo quindicennio dallo Stato e dalle istituzioni regionali e locali rispetto all'obiettivo di una riduzione del divario tra queste aree del Paese». E concretamente si domanda se «ogni intervento pubblico anti-crisi non dovrebbe mirare anche, e in particolare, al Mezzogiorno, che già soffre di condizioni di persistente arretratezza e le cui popolazioni soffrono di un disagio sociale».

Queste parole rappresentano il richiamo istituzionale ad una forte autocritica ma, paradossalmente, indicano anche la strada per (ri)partire.

(5. fine)

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