Le lettere del Presidente

I NOSTRI FIGLI NON LEGGONO: SCUOLA, FAMIGLIA E SOCIETA'

Paolo Giugliano, ex consigliere Nazionale della Pubblica Istruzione

 

Si discute molto  in ordine ai tassi di lettura da terzo mondo dei ragazzi napoletani. C’è chi assolve la scuola in ragione di una responsabilità educativa dell’insieme della società; e chi, pur non disconoscendo questo dato, ritiene che comunque solo dalla scuola, principale istituzione dello Stato sul territorio, possa scaturire  l’educazione alla lettura intesa come piacere della scoperta e curiosità della mente. “Siamo quelli che siamo stati” da 0 a 3 anni, afferma la psicologia dell’età evolutiva. Personalità, carattere, inclinazioni si formano in quel delicatissimo periodo.

 

 

Un’indagine condotta dal prof. Bertagna, consulente dell’allora ministro dell’Istruzione Letizia Moratti, mette al primo posto tra i fattori che determinano il successo scolastico, il titolo di studio della madre rispetto ad altri anch’essi importanti: le strutture edilizie, le attrezzature laboratoriali, il tempo scuola, la professionalità docente, il livello d’istruzione di entrambi i genitori. Se si leggono i dati relativi al numero di laureate, in particolare a Napoli, e il numero di asili nido esistenti si capisce come il primo compito della scuola sia quello di adottare una strategia di “discriminazione positiva” (dare di più a chi ha di meno) nei riguardi degli alunni più deprivati e svantaggiati. Ma quale è oggi la condizione della scuola? Sabino Cassese autorevole giurista la definisce: <>. Ma che tipo di merito dovrebbe esprimere un’istituzione in crisi di senso, significato e simbolo? Il suo compito è quello di trasmettere il patrimonio di sapere e valori (la cultura) a cui una determinata società è giunta per assicurarne la riproduzione e l’evoluzione. Prima tutto era più semplice la scuola era l’unica agenzia educativa deputata a questo scopo. Oggi quali sono i contenuti da trasmettere a ragazzi già alfabetizzati dai media, il cui futuro è incerto e precario? Due sono le risposte che si sono avute a queste  domande da parte di insegnanti sull’orlo di una crisi di senso. Una tecnica e l’altra sociale. La prima, da parte di chi si è rinchiuso nel perimetro delle proprie competenze pedagogico-didattiche, perché ritiene che il compito del docente sia solo quello d’istruire e pensa che la socializzazione sia solo sottrazione di tempo allo studio. La seconda, da parte di chi prova a dare risposte educative alle complesse patologie della modernità strutturando la scuola per progetti, per renderla più appetibile ad una platea più esigente ed eterogenea. E’ la scuola delle ”A” (Apprendimenti e Atteggiamenti) che denota due idee diverse del fare istruzione. Se non si parte da qui parlare di merito e di qualità rischia di diventare un puro esercizio retorico. Alle spalle ci sono riforme scolastiche portate avanti dai governi di centrosinistra e di centrodestra che non hanno prodotto visibili cambiamenti. E’ accaduto, così, che le buone riforme hanno lasciato intatta la “cattiva scuola” e la buona scuola è andata avanti indipendentemente delle cattive riforme. Ora si aspettano gli esiti della  “buona scuola”  di Renzi per vedere se si tratta di un intervento efficace o se invece di una “scuola alla buona”. L’esito delle prove INVALSI, quelle che valutano il livello di apprendimento degli studenti di tutti gli ordini e grado, registrano tra i ragazzi, in particolare del Sud, forti lacune, in matematica, scienze, lettura e comprensione di un testo. Se questo è vero, si spiega in larga parte perché leggano pochi libri. E’ da qui che bisogna partire, dalle loro doti e dai loro vissuti. Compito questo che spetta alla scuola, alla famiglia, alla società. Oggi la priorità è una scuola riformata nella cultura (programmi), nella struttura (gli ordinamenti) nel governo (organi collegiali e ministero), con la logica del mosaico e non dell’affresco. Verso questo settore bisogna trasferire significative poste di bilancio in grado di sostenere i cambiamenti necessari. In questo contesto l’insegnante  va considerato un “professionista in trattamenti formativi”, in grado cioè di mettere in corrispondenza l’evoluzione dell’alunno con i programmi ministeriali. Lo stipendio di un insegnante, oggi, è pari all’affitto di un appartamento nel  centro storico di Napoli. Pagarlo di più non è solo un fatto economico, ma denota un riconoscimento di funzione da parte della società. Corsi e progetti che riguardano il leggere a scuola sono utilissimi e da salutare con favore, ma intanto si deve iniziare per davvero a riformare il mastodonte scuola che vede ogni mattina un milione fra docenti ausiliari e amministrativi e otto milioni di studenti varcare le soglie delle aule scolastiche.

           

       

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