Il difficile cammino dall'università al lavoro

TORNANDO da una località balneare calabrese vi capiterà, in una stazione ferroviaria, di osservare il richiamo pubblicitario di un' amena università a iscrivervi nelle sue facoltà e di godere di un campus di bucolica armonia; sfogliando un autorevole quotidiano lombardo vi imbatterete nel messaggio di un prestigioso ateneo che vi prometterà, tra un anglicismo e l' altro, una brillante carriera nel mondo della finanza e degli affari. Diffidate. Le università italiane, sempre di più assediate da tagli finanziari camuffati da riforme, devono sopravvivere grazie alla quantità di studenti che riescono a "convincere" a usufruire della loro offerta didattica. Non è il solo criterio che, oramai, sancisce la magra distribuzione di risorse all' accademia nostrana e, forse, nemmeno il più distorto; di certo esso ci consente di prevedere la concorrenza spietata che, da qui a poco, si svilupperà tra le università campane per massimizzare il numero di nuovi iscritti. A voler essere saggi si tratta di un meccanismo inevitabile, reso sempre meno razionale e sempre più caotico dalla dequalificazione della scuola media superioree dalla propensione degli atenei a inventare corsi di laurea con meri obiettivi di marketing. Ma, ovviamente, si tratta di un gioco a somma zero. li atenei campani devono infatti ripartirsi quei due terzi dei diplomati che aspirano a continuare i propri studi nella regione, al netto di coloro, e sono circa un quarto delle matricole, che decidono di emigrare subito e non dopo la laurea. E, ragionando globalmente, un gioco a somma zero è poco attraente. Ci interessa di più sottolineare alcuni compiti che le istituzioni, accademiche e no, dovranno svolgere con la massima accuratezza e sensibilità.La questione sociale meridionale è divenuta sempre più la questione giovanile: non ci riferiamo esclusivamente alle difficoltà d' inserimento nel mondo del lavoro, che pur rimane il malessere principale della società del Mezzogiorno. L' universo giovanile, assediato da disvalori e da stimoli perversi, patisce i rischi di esclusione sociale anche quando approda a quello che, apparentemente, potrebbe essere considerato lo schermo meno vulnerabile agli attacchi dell' arretratezza culturale ed economica: l' istruzione universitaria. E i pericoli si presentano prima, durante e dopo: un' erronea scelta di facoltà, un percorso universitario lento e da "fuori-corso", un ingresso disagevole, per qualifica o distanza, nel mondo del lavoro, costituiranno condizioni sufficienti al rinvio nel mondo del disadattamento sociale di chi l' università sembrava aver inizialmente recuperato. Non che essa possa assumere per se stessa compiti improbi o debba sopperire a deficienze di altre istituzioni: di certo può tener conto dei problemi che abbiamo sollevato e cercare, con consapevolezza, di mitigarli. Vediamoli con ordine. Il primo: la massimizzazione delle immatricolazioni. Si è detto che la valutazione ministeriale della produttività degli atenei dipende, anche, dal numero delle iscrizioni e che, pertanto, oggi si favorisce la numerosità degli iscritti. Tuttavia una politica di sollecitazione indiscriminata si tradurrà, negli anni successivi, in un boomerang, poiché gli indici di produttività dell' ateneo saranno influenzati dalla lentezza della performance dello studente che si è cercato di attrarre a tutti i costi. Salvo che non si adoperi, congiuntamente, una generosa politica di voti e lauree "facili". Ancora: l' abbandono durante il periodo universitario. Le università meridionali, oltrea registrare la più bassa percentuale d' immatricolazioni per numero di studenti che ottengono il diploma, si caratterizzano per il maggiore tasso di abbandono dopo il primo anno di corso. In Campania la percentuale si attesta, oramai stabilmente, tra il 25 e il 30 per cento: uno studente, su tre o quattro, scompare appena entra in contatto con l' ateneo prescelto. Sarà la cattiva sceltae dunque un cambio d' indirizzo di studi, sarà l' accettazione dello status di disoccupato che l' immatricolazione occultava, spesso allo studente stesso, di certo frequenza ed esami svelano i limiti delle infrastrutture e la schizofrenia valutativa dei docenti tra lassismo e rigorismo. E infine l' ingresso sul mercato del lavoro. Le università campane, a differenza di atenei che operano in altre regioni, si trovano a operare in un contesto in cui le istituzioni preposte a massimizzare le possibilità che un laureato trovi lavoro si preoccupano solo di corsi di formazione fantasma per disoccupati organizzati. Pare che avvenga per ragioni supreme di stabilità sociale, come se un laureato disoccupato non debba essere considerato un potenziale emarginato. Non è un caso che nel Mezzogiorno, ma in Campania le percentuali sono ancora superiori, due terzi dei laureati meridionali presso università del Nord rimangano nelle regioni di adozione e che il 40 per cento dei laureati meridionali con il massimo dei voti cerchi direttamente un' occupazione altrove. Poco possono i rettori delle università campane sul collocamento dei nostri giovani, se non potenziando la qualità formativa; ma essa, evidentemente, non basta. Si potenzino le istituzioni regionali votate alla garanzia del diritto allo studio: l' aiuto nel trovare lavoro è un diritto non meno importante della residenza o del buono pasto. Si alimenti, in una parola, la speranza, la cui perdita è qualcosa in più della creazione di un nuovo disoccupato. 

Repubblica Napoli 29 agosto 2009.

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