Contributo di Ires Campania per il Congresso straordinario della Cgil Campania

 

Dalle criticità alle opportunità.

Gianni De Falco. Direttore Ires Campania.

 

In un editoriale pubblicato qualche tempo fa dal Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia rileva l’indifferenza dei meridionali rispetto alla drammatica condizione del Mezzogiorno.

 

È vero, molti meridionali hanno rinunciato ormai da tempo a pensare a come il Mezzogiorno è diventato e a come lo vorrebbero. Lo vivono ogni giorno, ma è come se non sapessero.

La corruzione e il malaffare hanno prodotto panorami terrificanti, ospedali malfunzionanti, strutture logistiche (come la Salerno - Reggio Calabria) ancora da completare, ma hanno soprattutto fatto piazza pulita di aspettative e ambizioni.

Hanno impedito ai meridionali di essere orgogliosi della loro terra e di sognarne un futuro.

Più che di indifferenza, si tratta di rassegnazione. Quella descritta da Carlo Levi con il famoso «Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola (…). Che cosa hai mangiato? Niente. Che cosa speri? Niente. Che cosa si può fare? Niente».

La sensazione di impotenza coinvolge anche molti intellettuali che nel denunciare le condizioni di arretratezza economica e sociale del Sud si scoprono nell’imbarazzo di non riuscire a individuare adeguate risposte. Chi vuole cambiare il Sud sa che fornirgli risorse non basta.

Il Sud ha sprecato sia risorse nazionali che europee, per finanziare scadenti o inutili corsi di formazione o per creare imprese che non hanno funzionato che per pochi giorni o neanche per un giorno.

È successo anche in altre parti d’Italia certo, ma maggiore è lo stato di bisogno, minore è l’ammissibilità degli sprechi.

C’è qualche segnale che ci lascia sperare che quanto accaduto in passato non accadrà in futuro? Bisogna ammettere che la nostra classe dirigente, la società che la esprime e che dovrebbe controllarla, non hanno dato alcun segno di cambiamento.

E allora, nessuna politica per il Mezzogiorno? Col tempo si è anche persa la speranza che lasciandolo da solo trovi il suo modo per avviarsi finalmente sulla strada dello sviluppo e del riscatto. Il federalismo fiscale doveva responsabilizzare le amministrazioni locali attraverso un più stretto controllo da parte dei cittadini e permettere una migliore selezione dei politici - amministratori. Invece, ha portato a un incremento della pressione fiscale e a poco altro.

Non ha funzionato neanche l’approccio che affidava a livelli decentrati di governo la funzione di individuare progetti e programmi.

L’intenzione di valorizzare le competenze locali si è scontrata con la tendenza dei politici a cercare consenso e quindi a frammentare gli interventi, oltretutto molto spesso realizzati senza neanche aver definito in maniera chiara gli obiettivi da raggiungere (il più delle volte è impossibile fare una pur grossolana analisi dei costi e dei benefici delle politiche).

Che fare dunque? Non ci sono ricette miracolose. È possibile però cercare di evitare di ripetere gli errori commessi in passato. Con il Masterplan presentato dal governo, in cui si demandano le scelte operative concrete ai quindici patti per il Mezzogiorno si rischia la stessa frammentazione di interventi già vista in passato.

Il Mezzogiorno rappresenta una risorsa cruciale per la crescita dell’intero paese ed è a livello nazionale che devono essere individuate le priorità e le strategie che lo aiutino a utilizzare a pieno le sue risorse, compreso un impegno a combattere la criminalità che con le sue attività nell’economia legale altera le regole di mercato.

Dopodiché è necessario realizzare progetti strutturati in modo tale da poter essere opportunamente valutati. Le valutazioni sono di importanza vitale perché permettono di capire cosa funziona e cosa non funziona e gettano le basi per una efficiente spesa futura (nel documento del governo non se ne parla da nessuna parte).

Se si vuole intraprendere un’azione decisa a favore del Mezzogiorno, le politiche nazionali devono tener conto delle differenze territoriali e garantire standard minimi uniformi nei servizi essenziali.

Ad esempio, non si può sperare che bastino le ore di formazione organizzate con i fondi comunitari a compensare la peggiore qualità complessiva delle nostre scuole. Bisogna pensare a come migliorare la qualità dell’istruzione nelle aree a forte disagio sociale ed economico, a come incentivare buoni docenti e buoni dirigenti a lavorare in quelle scuole. Lo stesso vale per le università. Ben vengano i sistemi di valutazione, ma non ci sarebbe nulla di scandaloso nel premiare di più chi fa bene: servirebbe solo a compensare le maggiori condizioni di disagio. Sistemi di questo tipo aiuterebbero il Mezzogiorno a non continuare a impoverirsi di capitale umano. Si continuano a perdere le risorse migliori, i più talentuosi e quelli che sono più dissonanti al sistema. Il Mezzogiorno ha bisogno di fermare l’emorragia che da tempo gli sta sottraendo le sue energie migliori. Quelli che se ne vanno non sono un campione casuale, sono i giovani più istruiti, i giovani più propensi al rischio e più innovativi, quelli che più si sentono estranei al sistema, che a essere incondizionatamente leali non ci stanno.

Di questi giovani il Sud non può fare a meno e le politiche che vogliono aiutare il Mezzogiorno devono essere studiate per loro, per seguire logiche nuove e togliere potere a chi ha mostrato di saperlo usare solo per perseguire interessi personali o di parte.

È importante, quindi, contribuire a creare le condizioni che permettano loro di restare e che anzi attraggano forze nuove (anche non meridionali) che possano infondere nuova linfa al tessuto sociale e produttivo.

Lo si può fare creando meccanismi automatici che non richiedono l’intermediazione dei politici e dei dirigenti locali.

Le stime preliminari dell’Istat sul Pil e sull’occupazione ci dicono che il Mezzogiorno, dopo dieci anni consecutivi di segni negativi, è tornato a crescere.

Sorprendentemente la crescita del Pil nelle regioni del Sud (+1%) è stata in linea con quella delle regioni del Nord e ben superiore a quella delle regioni del Centro.

Anche il numero degli occupati è aumentato più al Sud che al Nord: +1,5% contro una media nazionale dello +0,6%.

Segnali positivi per il Mezzogiorno arrivano pure dal numero delle attività economiche con un leggero aumento percentuale di nuove imprese e dalle esportazioni cresciute del 4 per cento.

La crescita del Pil è trainata dal comparto agricolo (+7,3%), dal settore del turismo, dei trasporti e delle telecomunicazioni e da uno sfruttamento, in realtà non regolato, di quelli che in anni passati furono definiti “Giacimenti culturali”.

Bastano questi numeri a far pensare che il Sud si è messo in moto e che siamo adesso sulla strada della ripresa? Certo sono segnali positivi, ma una rondine non fa primavera.

Soprattutto quando il dato contro cui ci si scontra è così consolidato. Il differenziale di reddito tra Nord e Sud è strutturale (20%): il processo di convergenza tra le regioni italiane si è arrestato nella seconda metà degli anni Ottanta e da allora il divario è aumentato, aggravandosi con la crisi. Nonostante i recenti buoni risultati, il Pil pro-capite del Mezzogiorno resta sotto i 17mila euro contro i circa 30mila delle regioni del Centro-Nord.

La Calabria e la Campania sono tra le regioni più povere d’Europa. La Campania in questi ultimi dieci anni ha perso la leadership tra le regioni meridionali in quasi tutti gli indicatori economici e sociali. La Puglia, che oggi occupa i primi posti nelle varie graduatorie, non riesce, tuttavia, a raccogliere il testimone ed è incapace a proporsi come leader delle restanti regioni meridionali perché i suoi dati di performance restano quelli degli anni della Campania leader e non apportano, dunque, un effetto trascinatore.

Per cambiare in maniera significativa questi dati sono necessarie consistenti e persistenti variazioni positive. Oggi la variazione è piccola e proviene da settori specifici che da soli difficilmente potranno garantire un’inversione di tendenza. Mentre nelle regioni del Nord i migliori risultati in termini di crescita del Pil si registrano nell’industria (+2 per cento), al Sud la crescita è trainata dal cosiddetto sistema TAC (Turismo, Agricoltura, Cultura). Si rimarcano quindi vocazioni territoriali differenti.

Circa il 44% delle imprese attive del Centro-Nord opera nei servizi (29%) e nell’industria (16%), mentre al Sud le imprese attive in questi settori rappresentano circa il 31% (19% nei servizi e circa 12% nell’industria).

Nelle regioni del Mezzogiorno una posizione di rilievo è occupata dal settore agricolo: circa il 20% delle imprese attive, contro il 12% del Centro-Nord. Ciò non deve essere per forza letto come segno di arretratezza. L’agricoltura, infatti, può essere anche innovativa e, con investimenti adeguati, diventare un settore ad alto valore aggiunto. Stesso discorso vale per il turismo (la cui crescita, però, deriva in questo momento anche dalla particolare situazione internazionale).

Questi settori possono certamente contribuire alla sviluppo del Mezzogiorno, ma probabilmente non possono bastare. Di aree coltivabili al Sud non ce ne sono molte e la vocazione turistica di alcune zone è stata fortemente compromessa dagli scempi edilizi e dai massacri ambientali commessi in passato.

È difficile quindi intravedere nei dati del Pil un cambiamento di rotta. È difficile perché non si capisce da cosa dovrebbe originare. Poco è cambiato.

Il Sud continua a essere la terra in cui i mali del paese si accentuano. Il governo d’altra parte non se l’è sentita né di destinarvi nuove risorse (il Masterplan si basa sulle risorse dei fondi strutturali e su quelle del fondo di coesione sociale) né di indicare una strada.

Si è preferito optare per una riedizione dei vecchi patti territoriali. Ogni regione presenta un patto che finisce con l’essere una lista di progetti scollegati, scelti non tanto per ragioni di merito, quanto per l’influenza decisiva delle lobby.

Si è preferito lasciare le mani libere a una classe dirigente che, come denunciato tempo fa da Roberto Saviano, viene selezionata non per capacità, per responsabilità, per creatività e per innovazione, ma esclusivamente per lealtà.

Questa classe dirigente sceglie il suo apparato politico e la sua burocrazia riproducendo le stesse logiche che sono alla base del processo di selezione di cui è frutto.

Tuttavia, nei patti per il Sud si può sperare, ma è difficile crederci. Bisognerebbe invece fare scelte coraggiose, puntare su una strada in maniera decisa, evitando frammentazioni.

Il disastro ferroviario tra Corato e Andria di metà luglio scorso ha drammaticamente portato sulle prime pagine dei giornali un aspetto del divario Nord-Sud spesso trascurato, quello nella dotazione infrastrutturale.

Le differenze sono riassunte nell’indice di dotazione fisica di infrastrutture elaborato dall’Istituto Tagliacarne: per il Sud pari a poco più di 80 contro una media di oltre 110 per il Centro-Nord.

A partire dagli anni novanta, si è assistito a un ridimensionamento dei flussi di investimenti in infrastrutture nel Mezzogiorno che ha riguardato anche quelle di tipo “sociale”, principalmente per scuole e ospedali.

L’attenzione dei media e del dibattito politico si è concentrata a lungo sulle grandi opere (qualche tempo fa in Campania per l’Aeroporto Internazionale di Grazzanise e la stazione di Afragola, in via di completamento, poi per il ponte di Messina, ripreso, con effetti speciali, più recentemente). Poca attenzione è stata invece dedicata al deterioramento delle “infrastrutture di base”, quali strade, reti ferroviarie, scuole, ospedali.

Basta dire che oggi al Sud circolano meno treni regionali che nella sola Lombardia (rapporto Pendolaria 2015, Legambiente), con un’età media dei convogli nettamente superiore a quella del Nord (20,4 anni contro 16,6) e che Calabria, Sicilia e Sardegna sono le regioni con la peggiore qualità degli edifici scolastici, ora raggiunte anche dalla nostra provincia casertana.

Un aspetto interessante del divario infrastrutturale è che a differenza del gap in termini di Pil, condizioni di salute o stato di povertà, è interpretabile non solo come un effetto, ma anche come una causa della mancata crescita del Mezzogiorno.

Le ragioni teoriche possono essere molteplici. Ad esempio, una buona dotazione di infrastrutture riduce i costi fissi delle imprese favorendo sia l’incremento dei volumi di produzione di quelle già presenti sul territorio, sia la localizzazione di nuove aziende.

Inoltre, secondo la Nuova geografia economica, i miglioramenti infrastrutturali possono influenzare la concentrazione spaziale delle attività economiche e rendere i mercati locali più accessibili.

La distinzione tra cause ed effetti è cruciale. Si possono curare gli effetti solo se si conoscono le cause. Tuttavia, non sempre è facile distinguere le une dalle altre.

Ad esempio, le cattive ferrovie del Sud Italia potrebbero non esercitare alcun impatto sul processo di crescita, ma semplicemente concorrere a descrivere il particolare stato di sviluppo che caratterizza quel territorio. Così come, prospettare il rilancio della portualità, senza tener conto di quello che succede nel Mediterraneo con il raddoppio di Suez, con i cinesi che controllano il porto del Pireo, la crisi dei maggiori porti europei di Marsiglia, di Siviglia e di Genova e la scelta di considerare Porto “mediterraneo” Anversa che, notoriamente, si affaccia sui mari del Nord, potrebbe assestare un duro colpo alla marineria commerciale e alla logistica navale.

Si tratta di una questione ben nota agli economisti, che negli ultimi anni si sono sforzati di utilizzare (e sviluppare) tecniche che consentono di identificare effetti causali. Queste metodologie sono state impiegate (nei limiti della disponibilità dei dati a disposizione) anche per cercare di capire l’impatto sulla crescita esercitato dagli investimenti in infrastrutture. I risultati sono abbastanza concordi, comunque, nel riconoscere un effetto positivo.

Per il nostro paese, uno studio della Banca d’Italia mostra che gli investimenti pubblici in capitale hanno determinato un incremento del Pil sia nelle regioni del Nord che in quelle del Sud Italia. Detto questo, però, si apre un’altra questione.

Non basta individuare la strada da percorrere, bisogna anche saperla percorrere. Il beneficio che deriva da risorse mal spese non può essere molto grande e la produttività marginale degli investimenti pubblici in capitale al Sud è inferiore rispetto al Nord.

Inutile dirlo, il Mezzogiorno è in parte responsabile dei suoi ritardi. Scegliere però di ridurre la spesa piuttosto che agire in maniera ferma per combattere i fattori che la rendono inefficiente significa rinunciare al Sud, considerarlo come causa persa. È perciò un bene che il Mezzogiorno sia tornato nel dibattito politico.

Le parole servono, ma probabilmente non bastano. Alcune recenti scelte, tra le quali spiccano il contratto di programma tra il ministero dei Trasporti e la Rete delle ferrovie italiane (Rfi) e il piano degli investimenti per la banda ultralarga, dimostrano un consolidamento della tendenza a impegnare più risorse laddove si ritiene maggiore la produttività e più brevi i tempi di risposta. Una prassi che però rischia di aumentare ulteriormente il divario tra le due aree del paese.

Sull’efficienza della spesa, certamente, al Sud tocca fare la sua parte, anche attraverso una più accurata selezione della sua classe dirigente, che deve essere più responsabile e più svincolata da eventuali logiche clientelari. Il governo centrale, però, ha il dovere di rendere più incisivo l’impegno nella lotta a quei fenomeni di illegalità diffusa, quali corruzione e criminalità organizzata, che costituiscono un serio ostacolo a qualunque processo di crescita.  Al Sud come nel resto del paese.

La Cgil Campania e la Camera del lavoro Metropolitana di Napoli, insieme con Cisl e Uil, escono, finalmente, da una crisi di timida presenza politica che ha segnato non poco gli effetti di rappresentanza, di proposta e di confronto con istituzioni che, per parte loro, sono anch’esse segnate da crisi profonda.

Il nuovo corso che si apre ha bisogno di ogni nostra risorsa, di tutto il nostro impegno, di tutte le nostre competenze. Il lavoro che ci aspetta, seppur difficile, rappresenta una magnifica ed affascinante sfida, ovviamente da vincere. Insieme.

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