Superare la crisi, mettere al centro il lavoro

xvi cong sTredici idee per il mezzogiorno dell’Ires Campania e del Dipartimento Mezzogiorno della Cgil Nazionale

 

Il Mezzogiorno sta pagando più di altre parti del Paese il costo della crisi: lo affermano concordemente Banca d’Italia, Ministero per lo Sviluppo e Svimez. Il PIL è in calo anche per l’anno in corso, i dati della disoccupazione sono drammatici, tutti i settori produttivi sono in affanno.

Il Governo di centrodestra è nuovamente intervenuto nei mesi scorsi, come  già aveva fatto con la Finanziaria del luglio 2008, per  sottrarre al Sud le risorse del Fondo aree sottoutilizzate (Fas) e per smantellare programmazione unitaria e Quadro strategico nazionale.

Non solo il Mezzogiorno è scomparso dall’agenda politica, come ha ripetutamente sottolineato il Presidente della Repubblica, ma si sono evidenziati solo gli aspetti negativi della situazione meridionale. Dalla vicenda rifiuti in poi (in Campania assurta a caso nazionale, a Palermo celata fin quando possibile), gran parte della grande stampa nazionale - insieme a diversi commentatori economici, non solo di centrodestra - ha diffuso l’opinione che l’insieme delle risorse per lo sviluppo assegnate dall’Europa e dallo Stato al Meridione fossero destinate ad un cattivo utilizzo o, peggio, ad alimentare il clientelismo.

La reazione delle classi dirigenti meridionali è stata contraddittoria: è mancata una riflessione, anche autocritica, sull’esperienza delle Regioni governate dal centrosinistra, mentre dove è al potere il centrodestra è stato rilanciato uno sterile ed anacronistico rivendicazionismo contro lo Stato e, in qualche caso, teorizzato un pericoloso “leghismo del Sud“, che non è una risposta credibile alliinaccettabile “ leghismo padano” che pesa invece sempre più nelle politiche del Governo Berlusconi.

Il Sud ha una prospettiva di sviluppo per se stesso e per il Paese che conferma la vocazione europea dell’Italia e che recupera pienamente la sua vocazione mediterranea dentro la prospettiva unitaria economica europea.

Evidenziare i rischi che derivano dalla centralizzazione delle risorse e denunciare la pochezza di una discussione incentrata sulla contrapposizione tra le diverse aree del Paese nell’utilizzo della spesa pubblica, non significa sottovalutare le disfunzioni e la sorda resistenza al cambiamento che hanno indebolito l’operato delle Pubbliche amministrazioni, né tantomeno mettere in ombra che il nodo centrale resta la lotta alla criminalità organizzata ed all’illegalità diffusa che inquinano la vita pubblica e l’economia di vaste zone del Sud.

Consapevole dello stato delle cose, la Cgil ha promosso una molteplicità di iniziative e di mobilitazioni nel Meridione. Tra le altre, le due assemblee nazionali di Brindisi e di Palermo, la prima sulla salvaguardia ed il rilancio dell’apparato produttivo e la seconda sulla difesa della scuola e dell’università pubbliche e sulla condizione giovanile meridionale, la settimana di lotta indetta insieme alla Fillea per accelerare la rapida cantierizzazione delle opere pubbliche già finanziate nel territorio meridionale, una rapida risposta anticiclica capace di alleviare la crescente disoccupazione per non dimenticare le iniziative di quelle categorie che hanno cominciato ad affrontare i problemi del Mezzogiorno in un contesto unitario nazionale tra le quali la Filcem, la Filtea e lo Spi nei loro recenti convegni.

Avvertiamo ora l’esigenza di offrire all’Assemblea programmatica della CGIL un ulteriore approfondimento sull’impatto della crisi e sulle tendenze dell’economia meridionale alla luce degli obiettivi e degli impegni che la Cgil dovrà assumere per dare corpo e sangue all’affermazione che il Paese non uscirà dalla crisi più robusto economicamente, più coeso socialmente, più unito, più giusto, se non considererà il Mezzogiorno la principale leva di sviluppo.

Difendere il valore del lavoro, contro le gabbie salariali e la deregolazione contrattuale, promuovere il lavoro buono e legale, promuovere sviluppo basato sulla diffusione della formazione, dell’istruzione e dell’economia della conoscenza, combattere la disoccupazione e contrastare risolutamente le mafie, l’economia criminale e l’illegalità: questa la via maestra per affrontare  e uscire dalla crisi nel Mezzogiorno e nel Paese tutto.

Perciò offriamo tredici idee alla riflessione ed al dibattito per individuare la via attraverso la quale l’Italia può uscire dalla crisi più robusta economicamente, più coesa socialmente, più unita, più giusta, più libera.

I. Il Mezzogiorno è il banco di prova della politica nazionale per affrontare e uscire dalla crisi perché anticipa, amplificandoli, problemi comuni dell’economia e della società italiane;

II. Il Mezzogiorno è questione nazionale: se si abbandona a se stessa la parte del Paese che sta pagando a più caro prezzo il costo dell’inadeguatezza della risposta nazionale alla crisi sarà l’Italia intera a diventare più debole e meno giusta;

III. Per superare gli errori ed i limiti dell’UE è necessario rimettere in valore le “politiche regionali” come strumento di convergenza e coesione tra i territori;

IV. Occorre un rinnovato modello di partecipazione per difendere e consolidare la democrazia e affermare la solidarietà

V. Bisogna combattere il disagio sociale e la precarietà che sono il brodo di coltura dell’illegalità e del malgoverno;

VI. Il lavoro è perno di una nuova politica di alleanze per il riscatto del Mezzogiorno e del Paese;

VII. La tutela del territorio ed il risanamento ambientale sono motori dello sviluppo;

VIII. Bisogna investire su logistica, innovazione e Stato sociale;

IX. Occorre una nuova politica industriale fondata su qualità, innovazione e conoscenza;

X. Il Sud, per difendere il lavoro buono e legale e sconfiggere il lavoro nero e illegale, deve contrastare le politiche di deregolazione del lavoro e di destrutturazione dei contratti nazionali;

XI. Occorre difendere le risorse che il Governo di centrodestra sta sottraendo al Meridione per destinarle ad altre aree; ma al Sud non servono “soldi” per alimentare vizi e distorsioni della spesa, servono risorse europee e nazionali per lo sviluppo, consistenti, certe e realmente aggiuntive alla spesa ordinaria da gestire attraverso una qualità nuova della governance: con trasparenza e con legalità;

XII. L’attuazione della legge delega sul federalismo è il terreno di un confronto di merito per difendere e far vivere le politiche di governance e coesione sociale del Paese;

XIII. Il Mezzogiorno ha bisogno di una nuova classe dirigente riformatrice; di forze politiche e sociali impegnate per il cambiamento, di una mobilitazione della gente per vincere contro le mafie, e per contrastare l’illegalità ed il cattivo uso del potere.

I. Il Mezzogiorno è il banco di prova della politica nazionale per affrontare e uscire dalla crisi

Il progressivo ridimensionamento della centralità delle tematiche dell’economia e della società del Mezzogiorno è causa e conseguenza del ridimensionamento delle politiche territoriali di convergenza e dell’allargarsi della forbice tra il tasso di crescita del Sud e quello medio nazionale.

Un simile circolo vizioso ha prodotto punti di vista e misure d’intervento del tutto antitetiche ed insoddisfacenti: da un lato vi è chi sottolinea l’insufficiente afflusso di fondi che dal Governo sono destinati al Mezzogiorno; dall’altro chi, esasperando il presunto potenziale conflitto con la “questione settentrionale”, rimarca il danno che l’inefficienza dell’utilizzo dei finanziamenti nelle Regioni meridionali pone sul tasso di crescita dell’economia nazionale. Questa contraddizione si fonda sul presupposto - errato e che non tiene conto di argomentazioni difficilmente falsificabili quali la dimensione degli impegni finanziari e la qualità dell’amministrazione e della gestione delle risorse – che i problemi del Mezzogiorno siano del tutto scollegati da quanto avviene nelle altre parti del Paese.

Le tendenze della società e dell’economia del Mezzogiorno sono inestricabilmente collegate con quelle nazionali, ancorché tali legami siano storicamente soggetti a mutamenti, ed è impossibile affrontarne i problemi solo come l’annosa tematica delle “regioni in ritardo”: questa la convinzione della CGIL.

Il Mezzogiorno, con le sue contraddizioni, le sue debolezze, la drammaticità dell’esclusione sociale e dell’emigrazione, anticipa, amplificandoli, problemi che l’economia e la società già affrontano o affronteranno. La capacità di affrontarli costituisce una cartina al tornasole dell’adeguatezza della politica economica italiana, ma anche della capacità elaborativa della nostra organizzazione.

Questo non riguarda solo il gruppo dirigente meridionale ma tutti i livelli dell’organizzazione, dalle grandi strutture confederali del Nord e dalle categorie nazionali. Per questo è utile immaginare, possibilmente nel percorso congressuale, una grande iniziativa nazionale sul Mezzogiorno.

 II. Il Mezzogiorno è questione nazionale

Un primo elemento che conferma l’unitarietà della “questione italiana” è rintracciabile nelle modalità con le quali la crisi internazionale si è abbattuta sulla nostra economia e dall’inadeguatezza della risposta “nazionale”.

Dopo la manovra finanziaria dello scorso luglio eccessivamente restrittiva e dopo tagli di spesa in settori fondamentali, le misure di carattere sociale del Governo si sono esaurite in due iniziative: la social card ed il bonus-famiglie, il cui utilizzo è risultato molto inferiore all’ammontare stanziato. Fonti diverse stimano concordemente che i tagli ai fondi per le politiche sociali, previsti dalla Finanziaria per il 2009, corrispondano quasi per intero alle risorse stanziate per social card e bonus per le famiglie.

Ancora, le iniziative specificamente considerate come “interventi anti-crisi”, ovvero il Piano Infrastrutture ed il Fondo Economia Reale, non hanno determinato stanziamenti aggiuntivi, ma sono consistite in una mera riprogrammazione di risorse statali e regionali attinte dal Fondo Aree Sottosviluppate. Anche l’importante accordo tra Governo e Regioni sull’ampliamento delle risorse per gli ammortizzatori sociali è stato in buona parte finanziato con le risorse del Fondo Sociale Europeo.

Tutto ciò ha determinato, sul piano strettamente quantitativo, una gravità della recessione in Italia più marcata della media europea e, sul piano territoriale, un’ulteriore divergenza delle dinamiche territoriali. Secondo la Banca d’Italia, infatti, a dispetto della tradizionale minore sensibilità al ciclo del sistema produttivo meridionale, la contrazione del prodotto nel Mezzogiorno è risultata più marcata e pari al 3.2%, a fronte del 2.6% nel Centro-Nord.

Nel Meridione la maggior caduta dei consumi delle famiglie dipende dall’assenza d’interventi fondati su principi di coesione e di solidarietà sociale.

In un clima di contrazione del reddito da lavoro, e di quello familiare complessivo, la minore capacità di spesa è vissuta come permanente e non già transitoria, il sistema di ammortizzatori sociali è percepito come insufficiente o inesistente; alla gente non rimane che contrarre stabilmente la spesa per consumi, nella profonda convinzione che i proclami governativi sul mantenimento della fiducia siano quasi provocatori.

In questo consiste la “portata nazionale” del problema meridionale: la scarsa lungimiranza e l’assenza di misure efficaci esaltano fenomeni quali la mancanza di fiducia delle famiglie, la crisi del reddito familiare complessivo, la mancanza della rete sociale di welfare. Si tratta di fenomeni perversi che, nel Sud, precorrono quanto la società italiana potrà, in egual misura, vivere in futuro.

III. È necessario rimettere in valore le “politiche regionali”

L’aggravarsi del problema meridionale non può essere attribuito esclusivamente alla miopia con cui esso è stato affrontato dalla politica economica nazionale, ma rimanda, seppur in modo più articolato, alle contraddizioni che contraddistinguono le politiche monetarie dell’Unione Europea, scissa tra vocazione strutturale all’allargamento ed alla convergenza ed abitudine di praticare politiche congiunturali di breve periodo, fondate esclusivamente su misure fiscali e monetarie miopi e poco propense all’espansione. Il mantenimento dei vincoli del Patto di Stabilità e la tardiva comprensione, da parte della Banca Centrale Europea e della Commissione Europea, della gravità della crisi finanziaria originatasi sul mercato finanziario statunitense sono, del secondo aspetto, i dati più evidenti.

Rilevarne l’estensione non deve, in ogni caso, fornire elementi assolutori: è avvenuto, nel medesimo contesto europeo, e forse in condizioni inizialmente più stringenti, che la Germania abbia dovuto affrontare, subito dopo l’unificazione, le condizioni di arretratezza dei Lander orientali. Ebbene, la politica regionale tedesca è riuscita ad assumere la convergenza delle regioni della ex Repubblica Democratica come problema “nazionale” dell’“economia sociale di mercato”, con la destinazione ad est di un ammontare di risorse e di estensione delle istituzioni di welfare e di normative del mercato del lavoro che, quale che sia il giudizio complessivo che di tale esperienza si ritiene di dare, non ha eguali nella storia del secondo dopoguerra.

La propensione recessiva della politica economica comunitaria di breve periodo non costituisce un alibi, forse è un’aggravante dell’allargamento del problema del Mezzogiorno.

IV. Un rinnovato modello di partecipazione per difendere e consolidare la democrazia e affermare la solidarietà

Il processo di governance, fondato sulla capacità di coesione dei diversi centri decisionali, può svilupparsi positivamente solo se si creano sul territorio condizioni minime (di carattere culturale, politico e tecnico-organizzativo) che consentano la regia e la promozione di quei processi di cooperazione e d’integrazione che sono alla base della pianificazione strategica.

Le relazioni che sono alla base di tale sistema possono determinarsi se emerge nel territorio quel clima di fiducia sociale e di reciproco riconoscimento (tra attori pubblici e privati) che consente lo sviluppo di processi di cooperazione finalizzati a conseguire obiettivi comuni e condivisi di sviluppo. Nel Mezzogiorno questi comportamenti virtuosi costituiscono ancora un’eccezione che la CGIL sostiene con gli accordi e le intese che esaltano il protagonismo delle parti sociali come soggetti della trasformazione.

Ma questo processo trova oggettive difficoltà perché si scontra con l’affermazione di un’azione politica monocentrica ed autoritaria ancor oggi esercitata dalla Pubblica Amministrazione, incapace, da sola, di riformare se stessa.

V. Combattere il disagio sociale e la precarietà

L’incapacità amministrativa di governo si traduce in un’esasperante accentuazione dei processi di disagio territoriale con un aumento delle varie e tante povertà sociali (precarizzazione del lavoro, frantumazione sociale, nuova emigrazione, illegalità diffusa, ecc.).

La precarizzazione del lavoro favorisce un indebolimento della struttura economica del territorio agendo in maniera diretta e decisiva nella composizione del Pil locale, e spinge le nuove generazioni verso un’emigrazione, concentrata nel segmento di età giovanile, che produce un’ulteriore erosione nei redditi familiari. Prima infatti chi emigrava riusciva, col proprio reddito, a sostenere il reddito familiare oggi invece chi emigra è costretto a chiedere un sostentamento alla propria famiglia per sopravvivere, ribaltando completamente gli effetti del “welfare familiare” che fino ad oggi caratterizzavano l’emigrazione meridionale.

La stessa scolarità di massa impatta, da un lato, nella mancanza di sbocchi per le professionalità ed i gradi medi ed alti d’istruzione e di formazione e, dall’altro, nella mancanza di condizioni economiche, sociali e culturali, capaci di favorire il diritto all’educazione permanente.

Questa condizione favorisce, ancora, una “frantumazione sociale” tra generazioni, tra condizioni di benessere economico e povertà, tra capacità di competizione e di sopravvivenza.

Viene meno, quindi, la coesione sociale necessaria per le politiche di sviluppo le quali, seppur presenti, mancano d’impianto strategico e di prospettiva.

In tale contesto va sempre più affermandosi un processo d’illegalità diffusa, e tollerata, che sfocia nelle più pericolose pratiche d’intreccio tra politica, affari e criminalità.

VI. Il lavoro è perno di una nuova politica di alleanze

L’incremento della disoccupazione, i mutamenti nella distribuzione del reddito, le tendenze della povertà assoluta e di quella relativa, la ripresa dell’emigrazione modellano una stratificazione sociale del Mezzogiorno del tutto peculiare: una struttura delle classi sociali che anticipa e precorre l’impoverimento del lavoro dipendente a reddito fisso, ma che l’opacità del rapporto con il mercato del lavoro, la crisi del passaggio tra periodo dell’istruzione ed aspirazione lavorativa rendono uno spaccato di arretratezza anche rispetto a stati di recente adesione alle istituzioni comunitarie.

Le disparità nei livelli di reddito tra le due circoscrizioni del Paese sono ascrivibili non solo alle differenze tra le due macroregioni, ma anche alle profonde sperequazioni che interessano il Meridione al suo interno.

È come se la società meridionale fosse l’esito risultante dalla combinazione perversa dei tratti tipici di una regione europea in ritardo di sviluppo e delle disuguaglianze proprie dei paesi meno sviluppati, determinando una miscela che non consente certezze interpretative e politiche univoche.

Per allentare la morsa che soffoca le energie migliori del Mezzogiorno bisogna ricostruire attorno alla centralità del lavoro (dignità, qualità e diritti) una rete di relazioni e di alleanze sociali per promuovere processi di cooperazione e d’integrazione che dovranno tener conto dei principali soggetti cui riferirsi:

- i lavoratori dipendenti e pensionati, sulle cui spalle grava per intero, in assenza di provvedimenti economici, il peso della crisi;

- i giovani ed i precari, tutti quelli e quelle che sono costretti a rinunciare (? È un pensiero monco) e rivendicano il diritto alla formazione ed al lavoro e tutti coloro che sono costretti a vivere nella marginalità, precarietà ed illegalità;

- i migranti, nuova “famiglia sociale” alla ricerca di dignità e diritti;

- il sistema d’imprese operanti nell’economia legale, che ha interesse a cooperare per la ricostruzione di mercati più che all’acquisizione di risorse ed aiuti finanziari che generano limitati, ed improduttivi, effetti;

- tutti i soggetti che operano per la legalità, la Magistratura, le forze dell’ordine, le Istituzioni che si impegnano nelle politiche di contrasto.

VII. Tutela del territorio e risanamento ambientale, motori dello sviluppo

Nell’ultimo decennio, l’uso ed il consumo di territorio ed il degrado dell’ambiente hanno assunto proporzioni preoccupanti ed un’estensione devastante. Negli ultimi 15 anni in Italia circa tre milioni di ettari, un tempo agricoli, sono stati asfaltati e/o cementificati.

Questa crescita senza limiti considera il territorio e l’ambiente come risorse inesauribili, da oltraggiare e svendere. Tutto ciò porta, da una parte, alla rinuncia di qualsivoglia attività manutentiva dei centri abitati ed allo svuotamento di molti centri storici e, dall’altra, all’aumento di nuovi residenti in nuovi spazi (città diffuse o periferie infinite) con nuove attività e con nuove domande di servizi che restano ampiamente disattese.

Si avverte un forte squilibrio nelle politiche di ‘uso senza regole’ e ‘consumo del territorio e dell’ambiente’ con uno sbilanciamento verso la realizzazione di grandi opere ed una nuova urbanizzazione tesa alla sola valorizzazione di valori fondiari ed immobiliari che acuiscono i problemi e le differenze socio-economiche dei territori.

E’ quanto accaduto a L’Aquila: un’attività sismica, che in altri Paesi avrebbe prodotto pochi danni, si è trasformata in una catastrofe, con perdita di circa trecento vite umane e la distruzione dei centri storici ed il collassamento di gran parte della nuova edilizia.

Nessuna politica urbanistica è però ispirata al principio del risparmio e della tutela del territorio ed alla sostenibilità dello sviluppo. Per il territorio s’impone una politica di governo delle risorse ambientali (idrogeologiche, energetiche) e di tutela, manutenzione e riassetto dei centri abitati (messa in sicurezza delle scuole, degli ospedali e di tutte le strutture pubbliche) e dei centri storici che si affranchi da un uso capitalistico ed intensivo delle aree che in questi anni ha prodotto l’ideologia e la politica della deregolazione ed innumerevoli disastri.

VIII. Investire sullo Stato sociale, l’istruzione e la formazione, l’innovazione, la logistica

Il welfare avrà la necessità di rimodellarsi sulle nuove domande, individuali e collettive, delle donne, dei giovani, degli anziani, dei deboli, che la società da più tempo richiede inutilmente e che nel Mezzogiorno incrociano anche in forma drammatica le nuove povertà.

Il ‘libro bianco’ del ministro Sacconi va in direzione esattamente contraria proponendo un welfare che perde la dimensione dell’universalità, viene modulato in relazione ai territori ed affidato prevalentemente a strumenti di bilateralità, inaccettabili, perché si pongono come sostitutivi dei servizi pubblici. E’ un’ipotesi devastante per il Mezzogiorno che rischia un arretramento di diritti sociali già oggi carenti e meno fruibili rispetto alle aree più forti del Paese.

Nel Mezzogiorno, poiché è prioritario rimuovere il forte divario di conoscenze e competenze, occorre intervenire per migliorare il sistema formativo e promuovere innovazione nel sistema economico e sociale.

Per i settori produttivi va ripensata la centralità e la qualità del sistema industriale puntando sulla promozione dell’impresa, il lavoro, l’innovazione. In particolare, vanno sostenuti e ritenuti strategici i settori del Turismo (sostenibile) e dell’Agroalimentare (tipico) le attività innovative ed ad alto contenuto tecnologico. Anche i servizi alle imprese dovranno essere ripensati in una logica di sviluppo e d’innovazione.

Per il sistema della logistica meridionale s’impone la scelta di rafforzare le direttrici Nord-Sud ed Est-Ovest del sistema ferroviario, il sistema della portualità e gli aeroporti con un assetto logistico in una dimensione mediterranea, ripensando l’intero sistema della intermodalità in funzione d’integrazione e scambio tra l’Europa, il bacino mediterraneo ed i nuovi mercati dell’Est (Cina).

IX. Una nuova politica industriale fondata sulla qualità e l’innovazione e la conoscenza

Sul piano produttivo la crisi e l’inadeguatezza delle politiche di contrasto segnalano un ulteriore problema che il Mezzogiorno vive con maggiore intensità e precorre rispetto al resto del Paese.

La storia industriale dell’Italia è, nell’ultimo decennio, contraddittoria: mentre le grandi imprese arrancano in assenza di politiche industriali innovative e, probabilmente, attardate da incapacità pregresse di salto tecnologico, le imprese piccole e medie cercano assetti stabili e redditività soddisfacente con processi di riconversione e di lenta qualificazione. Era stato, fin qui, un processo lento e diverso nelle due aree del Paese: sia pure con indicatori di efficienza e di redditività distanti da quelli delle omologhe imprese centro-settentrionali e variegati al loro interno, una parte delle imprese meridionali stava tentando di penetrare sui mercati internazionali e di incrementare la propria produttività. Le modalità di riassetto erano differenziate e non sempre condivisibili, ma da valutare con attenzione poiché un simile processo rappresentava l’unica tendenza palese per il superamento del nanismo che, storicamente, ha interessato le attività manifatturiere nascenti nel Mezzogiorno.

La crisi tende a ridimensionare il processo sino quasi, secondo gli osservatori più attenti, ad annullarlo. E ripristinarlo è compito improbo specie se tentato, come pare intendere il Governo, tramite ipotesi omnicomprensive: ha poco senso, infatti, centrare la propria strategia sulla disponibilità di finanziamenti quando il problema è costituito dall’insufficienza della domanda aggregata, fenomeno che rende inutile la disponibilità di credito.

Per converso incentivare la domanda, magari tramite rottamazioni o misure analoghe, per le imprese che hanno difficoltà nel finanziamento del capitale circolante, è altrettanto contraddittorio.

La situazione meridionale precorre, anche sotto quest’aspetto, la dimensione nazionale del problema del rapporto con la piccola e media impresa e la necessità di costruire un quadro di politica industriale in cui le determinanti delle difficoltà, le cause del nanismo e lo stimolo del riassetto siano i presupposti irrinunciabili.

Nel Sud i grandi gruppi industriali sono chiamati a scegliere se stare dentro una politica di innovazione, mantenendo una vocazione nazionale, oppure ritrarsi con il rischio di condannare al progressivo smantellamento di produzioni significative. E’ il caso della Fiat che nel processo di riorganizzazione internazionale non fornisce ad oggi garanzie per due stabilimenti decisivi per l’industria automobilistica nazionale come quelli di Pomigliano e di Termini Imerese. Questo equivarrebbe alla messa in discussione della capacità produttiva italiana nel settore.

La Cgil si è battuta, si batte e si batterà per la salvaguardia e lo sviluppo dei presidi industriali del Mezzogiorno.

X. Per difendere il lavoro buono e legale e sconfiggere il lavoro nero ed illegale si devono contrastare le politiche di deregolazione del lavoro e di destrutturazione dei contratti nazionali

L’intesa separata del 22 gennaio, firmata a dispetto della volontà di milioni di persone che si espressero contro di essa nel referendum indetto dalla Cgil, ed il protocollo applicativo del 15 aprile rivelano la volontà del Governo di dividere il sindacato ed escludere la Cgil.

Il Mezzogiorno, per le caratteristiche del sistema produttivo e per la composizione della forza lavoro è la parte del Paese maggiormente esposta alle conseguenze negative che avrebbe il nuovo assetto delle relazioni sindacali che avversiamo con la massima determinazione; per questo il Sud è chiamato a contrastare un modello contrattuale che ha i suoi pilastri nella riduzione programmata del salario e nella destrutturazione del contratto nazionale di lavoro. Se l’intesa separata trovasse applicazione, aumenterebbero le disuguaglianze sociali, si indebolirebbe la tutela dei diritti individuali e collettivi, aumenterebbe lo sfruttamento delle aree più deboli del mercato del lavoro.

A completare un quadro assolutamente peggiorativo delle condizioni di lavoro e di vita, va aggiunto il tentativo di modificare il Testo Unico sulla sicurezza nel momento in cui, soprattutto nel Sud, è evidente un aumento del numero e della gravità degli incidenti sul lavoro.

L’ampiezza delle deroghe contrattuali previste dall’intesa separata in territori strutturalmente deboli come quelli meridionali condurrebbe ad una riduzione generalizzata delle retribuzioni e condannerebbe il Sud ad un futuro di competitività al ribasso e di diritti negati: infatti non solo le situazioni di crisi ma anche gli eventuali accordi collegati allo sviluppo sono indicati come cause per derogare ai contratti nazionali. Tutto ciò, anziché allargare gli spazi della contrattazione integrativa, finirà per cancellare le poche esperienze di contrattazione di secondo livello che esistono nel territorio meridionale.

Infine, il tentativo della Lega di aprire un varco al federalismo contrattuale comporta il rischio di un’ulteriore penalizzazione delle retribuzioni meridionali, già oggi mediamente inferiori a quelli delle aree più forti del Paese.

La rincorsa ai bassi salari in un quadro economico debole e sottoposto con virulenza alla crisi favorirebbe ulteriormente la concorrenza al ribasso rappresentata dal lavoro nero e dall’economia illegale, indebolendo la “convenienza” all’emersione ed al lavoro regolare per ampi settori del mondo del lavoro. Per quest’insieme di motivi appare utile avviare con le categorie nazionali una riflessione finalizzata a consolidare e rafforzare la capacità contrattuale delle lavoratrici e dei lavoratori del meridione. Altrettanto opportuna è una ricognizione dell’ampiezza e della qualità delle esperienze di contrattazione sociale e territoriale avviate nel Sud.

XI. Difendere le risorse per lo sviluppo del Sud per gestirle attraverso una qualità nuova della governance, la trasparenza, la legalità

Si è detto in precedenza come le disponibilità finanziarie delle misure anti-crisi del Governo siano state attinte da risorse già destinate al Mezzogiorno. Significativamente il Rapporto annuale del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo stima che la quota del Fas, già assegnata ai programmi delle Amministrazioni centrali, è stata invece riprogrammata e destinata al Fondo sociale per l’occupazione ed al Fondo infrastrutture, mentre la residua disponibilità del Fas è stata accantonata presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Entrambe le tendenze, riassegnazione e centralizzazione, sono perverse e politicamente dannose. Sulla prima si è già detto; la seconda, apparentemente, asseconda le valutazioni negative, specie degli imprenditori, sull’uso che Regioni ed enti locali hanno effettuato dei fondi europei e delle politiche di coesione. Ci troviamo, dicono commentatori accreditati, in una situazione di vero e proprio “trasferimento di risorse dalle regioni allo Stato centrale”, come se l’accentramento, di per sé, fosse foriero di efficienza e di buon governo delle risorse.

La Cgil, pur condividendo le perplessità sulle modalità e sulla selettività d’indirizzo delle Regioni, paventa il possibile ritorno, palese o meno, ad istituzioni centrali di spesa, il cosiddetto modello di “agenzia nazionale”, una sorta di Cassa per il Mezzogiorno riveduta e corretta, i cui costi in tema di lottizzazione politica e di assoluta incapacità di selezionare i progetti d’investimento supererebbero di gran lunga i possibili benefici apportati alla dotazione infrastrutturale delle regioni meridionali. Pare, secondo un paradosso di congruenza non nuovo nella politica regionale, che accentramento e federalismo convivano secondo le convenienze politiche del momento.

XII. Nella discussione sul federalismo difendere e far vivere le politiche di governance e la coesione sociale del Paese

La prima ipotesi di legge delega sul federalismo fiscale, previsto dall’art. 119 della Costituzione, nacque con il semplice e barbaro intento di sottrarre risorse al Mezzogiorno, a tutto vantaggio delle Regioni del Nord e, comunque, di quelle ricche, al di fuori da ogni ottica solidaristica.

Questa ipotesi, che disattendeva ampiamente il dettato costituzionale, ha visto numerosi oppositori, tra questi la Cgil e l’opposizione parlamentare, che hanno obbligato il Governo a una sostanziale riscrittura del disegno di legge recuperando nel dettato quegli elementi perequativi assenti (volutamente) nella precedente scrittura.

La legge delega approvata è priva della maggior parte delle proposte lesive della solidarietà e della coesione, anche se una serie di dubbi andranno chiariti in sede di decreti delegati: essa prevede il finanziamento integrale per tutte le regioni di funzioni fondamentali come Sanità, Istruzione, Assistenza sociale e Trasporti, anche se limitata ai “costi standard” relativi ad un non precisato livello essenziale uniforme, mentre per le altre funzioni si perequa solo in base alle diverse capacità fiscali. Insomma, “ci si dà un mano” tra Regioni, ma fondamentalmente bisogna provare a fare da soli.

La proposta, anche nella formulazione attuale, nasconde difetti tutt’altro che lievi. Senza elencarli tutti, essa è, soprattutto, molto indefinita perché rimanda le vere scelte - quelle che, senza far sconti all’assistenzialismo di ritorno, potrebbero far male alle Regioni meridionali - ai decreti legislativi di attuazione: ad oggi non sappiamo se, quando e come le varie interpretazioni possibili del testo saranno sciolte nelle mediazioni Stato – Regioni - Enti Locali.

La legge delega resta, dunque, vaga e contraddittoria in alcune parti e richiederà diversi anni per essere pienamente applicata. In sostanza essa si configura come una legge “manifesto” e costituirà, quindi, il terreno di scontro con il quale confrontarsi tenendo a modello la positiva stagione dell’istituzione delle Regioni.

XIII. Il Mezzogiorno ha bisogno di una nuova classe dirigente riformatrice

A ben vedere, molti alibi che sottintendono il ridimensionamento dell’interesse politico per il Mezzogiorno ed il suo mancato riconoscimento come “questione nazionale” sono da attribuire al deficit istituzionale che la classe politica del Mezzogiorno, dei diversi orientamenti, ha espresso nel corso degli ultimi anni.

Il venir meno delle grandi speranze legate alla stagione del rinnovamento istituzionale degli Enti locali ed il parziale disincanto, seguito alla vittoria del centro-sinistra nelle grandi Regioni del Sud, hanno segnato la classe politica meridionale come responsabile di una cattiva gestione che è stata utilizzata per rinforzare, di volta in volta, le proposte di centralizzazione o di federalismo o di superamento delle misure solidali e delle politiche territoriali regionali.

Simili critiche fanno emergere l’assenza di un surplus politico ed istituzionale delle classi dirigenti meridionali. Non aver pienamente compreso, dieci anni addietro, i vantaggi della Nuova Programmazione, l’inderogabile necessità di un uso efficiente ed efficace dei fondi comunitari, la trasparenza nella gestione della cosa pubblica, ha determinato una caduta di fiducia che, sia pure in parte strumentalizzata, ha enfatizzato carenze, colpe ed omissioni senza traslarle dal fattore soggettivo a quello di “contesto”, con danni irreparabili.

Invece che generare un surplus sociale netto, il solo che avrebbe potuto compensare il declassamento del mancato sviluppo meridionale nella gerarchia degli obiettivi finali di politica economica nazionale, il Mezzogiorno ha dovuto fare i conti con un deficit istituzionale.

Inoltre le condizioni diffuse d’illegalità e di commistione con l’economia sommersa hanno reso ancor più difficile l’uso di pacchetti d’interventi che pure si erano dimostrati validi in passato o in altre realtà; mentre il processo d’illegalità diffusa sfocia nell’intreccio tra politica, affari e criminalità.

Tale condizione obbliga a ripensare le modalità di selezione della classe politica e di governo locale. Una nuova classe dirigente riformatrice - espressione di un’alleanza che abbia al centro il lavoro con un programma di rinnovamento che dia un nuovo orizzonte ed una speranza - è indispensabile per mobilitare le energie del Paese e restituire anche nel Mezzogiorno fiducia nelle Istituzioni per uscire più forti e coesi dalla crisi.

Oggi si tratta di impedire che il Mezzogiorno scompaia dall’orizzonte della politica italiana e si rassegni ad una deriva pericolosa per l’unità del Paese e per la tenuta della democrazia.

Riconoscere la complessità e la valenza nazionale della condizione del Mezzogiorno per una qualità nuova dello sviluppo e valorizzare la funzione nazionale della battaglia per il suo cambiamento è il contributo che la CGIL offre all’intero movimento sindacale, ma anche alla cultura ed alla politica di questo Paese.

 

 

Riconoscere la complessità e la valenza nazionale della condizione del Mezzogiorno per una qualità nuova dello sviluppo e valorizzare la funzione nazionale della battaglia per il suo cambiamento è il contributo che la CGIL offre all’intero movimento sindacale, ma anche alla cultura ed alla politica di questo Paese.

22 giugno 2009

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