Le virtù della spesa pubblica

Nulla cambia tanto velocemente i convincimenti diffusi, e spesso indimostrati, del funzionamento dell’economia quanto le situazioni di crisi o di frattura traumatica. Un innato conservatorismo ci porta a credere fideisticamente in ciò che è propinato da un caravanserraglio di media, esperti e capitani di impresa, che quotidianamente inneggiano alle virtù progressive della competizione globale, del libero mercato e della finanza creativa. Poi accade che sopravvenga uno shock, non uno qualunque, ma il collasso dell’intero edificio che dovrebbe presiedere al finanziamento delle attività dell’economia reale perché il castello delle verità ammannite si sgretoli per incanto, per ritrovarci tutti dal lato della barricata “l’avevo-detto-io”. E come tutti i grandi capovolgimenti, anche questa crisi finanziaria ha motivazioni tutto sommato semplici da identificare: un sistema, e qui ci riferiamo ad Aig o a Lehman Brothers, che consente all’istituzione assicurante di acquistare i medesimi titoli a rischio dell’operatore assicurato ha qualcosa che non funziona nei suoi principi di governance. Ma la rilettura critica del passato non è un esercizio oggi molto praticato: la comprensione di una tecnicalità è considerata assai più fruttuosa di un capitolo di storia economica; eppure Teodoro Roosevelt, in occasione del discorso d’insediamento per il secondo mandato alla Casa Bianca affermò: «Abbiamo sempre saputo che perseguire interessi personali senza scrupoli è un pessimo principio morale; ora sappiamo che è pessimo anche per l’economia». Ma, e questo pare l’unico dato positivo, le crisi eliminano certezze autoreferenziate e ideologie surrettizie; nel nostro caso un ventennio iniziato con “Milano-da-bere”, passato per gli assalti bancari dei “furbetti-del-quartierino”, e culminato nelle crisi depressive dei broker di Wall Street. I n meno di venti giorni abbiamo assistito a cambiamenti così radicali del capitalismo e dei suoi convincimenti quali nemmeno una seconda presa del Palazzo d’Inverno avrebbe determinato. Ne sottoponiamo qualcuno al lettore, fiduciosi che ci seguirà sulla parola: la nazionalizzazione, di fatto, del sistema bancario internazionale; la riesumazione di teorie sulla virtù della spesa pubblica che nemmeno i più estremisti seguaci di Keynes avrebbero sperato, la concessione del premio Nobel dell’economia a Paul Krugman, non eccelso economista radical; l’intera revisione dell’apparato di politica monetaria europea, costruito niente di meno che dal Trattato di Maastricht, sulla necessità di privilegiare il controllo dell’inflazione a scapito della produzione e dell’occupazione. Nella prefazione a un libro sulla politica economica in Europa esprimevo una profonda insoddisfazione culturale per il connubio che si era andato indissolubilmente formando, da un quindicennio a questa parte, tra una nuova ortodossia teorica e i fondamenti della politica economica portata avanti dalle istituzioni europee. Si tratta di un connubio che ha liquidato, con una frettolosità a mio avviso eccessiva, l’armamentario teorico e i postulati di Keynes e del keynesismo, minimizzando la componente discrezionale dell’intervento dello Stato nell’economia di mercato e individuando nel mero controllo dei prezzi la ragion d’essere della regolazione. Ciò che colpisce di questo connubio è il livello di certezze e di convinzioni che appare stridente con la dubbiosità propria del ricercatore o con la problematicità delle istituzioni che governano una realtà complessa come quella dell’Unione europea. Non si intende qui dire che la policy non debba essere risoluta e determinata; tuttavia se il lettore avrà modo di leggere i documenti e le riflessioni di policy maker operanti in realtà altrettanto complesse di quella europea, come gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, potrà personalmente rilevare quanto il tono di Greenspan, già presidente della Federal Reserve, di King, governatore della Bank of England, di Robert Reich, ministro del Lavoro durante la presidenza di Clinton, sia risoluto nella policy ma problematico nell’analisi, attento alla possibile erroneità delle proprie idee e alla potenziale veridicità di quelle contrarie. In Europa, o meglio, nella cultura di chi gestisce l’Unione monetaria europea, nulla di tutto ciò: i governanti della Banca centrale europea hanno fin qui riproposto pervicacemente un modello di banca centrale che dovrebbe suscitare, almeno, qualche perplessità; i responsabili della Commissione europea, tra tutti l’attuale commissario per gli Affari economici e finanziari, Joaquin Almunia, paiono esibire una sicumera interpretativa e prescrittiva che sembra crescere di pari passo con gli elementi di problematicità che l’Europa È chiamata a risolvere. Scrivevamo nel libro che l’Unione monetaria europea, un traguardo importante e politicamente impensabile solo una ventina di anni fa, necessita non tanto di certezze ostentate o di teorie funzionali, quanto di sensibilità sociale, di attenzione alle diversità interpretative, di una sistematica revisione di postulati che paiono messi in discussione dalla storia. Probabilmente una simile laicità di giudizio e di comportamento consentirebbe di pensare alla politica economica comunitaria come un corpus in fieri, più che come un modello elaborato da una ristretta élite burocratica e politica. È triste, e francamente frustrante, constatare che parte di questa revisione debba avvenire non già per saggezza e lungimiranza della politica, ma per le spinte di una crisi incombente.

Questo brano È tratto da Politica economica. La teoria e l’Unione europea, di U. Marani, R. R. Canale, O. Napolitano e P. Foresti, Hoepli Editore, 2008 -

Repubblica NAPOLI, 16 ottobre 2008

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