Influenze, pandemie mancate e COV-19

nell'ambito dell'iniziativa

Osservazioni e riflessioni sui cambiamenti del nostro sistema ante e post virus.

ospitiamo l'intervento di:

Stefano Dumontet, docente di Scienze biologiche all'Università Parthenope di Napoli

 

INFLUENZE, PANDEMIE MANCATE E COV-19

 

Come sempre accade in momenti critici, o socialmente e politicamente particolarmente sensibili, il dibattito sui maggiori mezzi di comunicazione e sui social network è appiattito su due posizioni contrapposte: chi è contro e chi è a favore. La contrapposizione che ne scaturisce è spesso tanto violenta da impedire anche la minima possibilità di discutere in profondità temi complessi, mettere in luce contradizioni, investigare su strane coincidenze, accreditare fonti alternative od opinioni “fuori dal coro”.

La realtà è ridotta così ad una foto in bianco e nero, dove c’è un solo piano focale e persino i toni di grigio mancano. In questo modo diviene impossibile comprendere ciò che sta accadendo e persino tentare di darne una spiegazione razionale. Farlo presupporrebbe sia un’analisi approfondita di fenomeni che non sempre sembrano immediatamente correlati agli eventi in corso, sia il recupero della memoria storica di ciò che è già accaduto. La monodimensionalità dell’approccio narrativo spinge da tutt’altra parte. Tra l’altro, dimenticare, oppure omettere, il passato è il modo migliore per affermare, e poi negare, tutto e il contrario di tutto. Non si può nemmeno invocare la complessità degli argomenti da trattare per giustificare la superficialità dell’approccio informativo. I media coprono con centinaia di ore di trasmissione e migliaia di pagine di giornali gli eventi critici, ripetendo sino alla nausea le stesse notizie. Avrebbero tutto il modo e tutto il tempo per affrontare con più serietà il loro compito.

La crisi sanitaria che viviamo in questi giorni è senz’altro un esempio paradigmatico di contrapposizione tra diversi schieramenti: da una parte una componente degli scienziati (e sedicenti tali) e di parte dell’opinione pubblica e dall’altra quello che viene considerato dai più come un manipolo di complottisti/negazionisti, personaggi accusati di credere in complotto ordito da una novella Spectre ai danni dei cittadini del mondo e di essere così stupidi ed in mala fede da negare persino le morti evidenti e documentate dai media.

Le cose non stanno esattamente così. Mettere in discussione la narrativa corrente non significa negare, non significa vedere complotti dove non ce ne sono e non significa neppure cercare cinicamente una visibilità a tutti i costi in un momento drammatico. Analizzare i fenomeni e mettere in evidenza le contradizioni delle versioni ufficiali, in alcuni casi anche le evidenti menzogne e le ancor più evidenti omissioni, serve a capire meglio ciò che accade e a valutare con più precisione la portata politica dell’immenso esperimento di ingegneria sociale che stiamo vivendo.

Non vale l’approccio che usa, per accreditare le versioni ufficiali, il ricorso a ciò che l’informazione mainstream accredita come vero: se le cose non stanno come ci dicono perché tutti i governi del mondo reagiscono alla stessa maniera? Perché ci sono tanti morti documentati? Perché siamo tutti confinati in casa? Perché gli ospedali scoppiano e i medici muoiono? Questo è un tipico caso di affermazioni tautologiche, affermazioni che servono come prova che ciò che queste stesse affermano sia vero. Il nodo del problema non è nel negare o meno, ma descrivere la realtà attraverso l’analisi storica degli eventi recenti e le conoscenze scientifiche disponibili. Già un’analisi dei siti ufficiali della WHO, dell’Istituto Superiore di Sanità, dell’ISTAT e di autorevoli fonti giornalistiche e scientifiche mette in grado di porre nella loro corretta posizione alcune tessere di un mosaico, che sembra non restituire la stessa immagine fornita dalle versioni ufficiali.

Credo che il punto più rilevante di tutta questa complessa vicenda possa essere riassunto in una sola parola: omissione. E’ l’omissione e l’oscuramento degli eventi che si sono verificati nel recentissimo passato a consentire la creazione di una cortina fumogena in grado di attenuare i contorni e rendere opaca la visione d’insieme.

Per sostenere questo mio punto di vista procederò per gradi, tentando una ricostruzione di eventi, per lo più ignoti al grande pubblico e trascurati dai media, reperibili sul web da chiunque abbia voglia di farlo e l’onestà intellettuale di interpretarli.

 

Che cos’è una pandemia

 

Avere una precisa descrizione di pandemia sembrerebbe cosa ovvia, ma non è così. L’organismo deputato a dichiarare un “global alert” per l’arrivo di una pandemia è l’Organizzazione Mondiale della Salute (WHO), ma la definizione che viene fornita è molto generica. Innanzitutto vale la pena riferire che questa definizione è stata modificata in anni recenti, come riporta Peter Doshi (editore associato del British Medical Journal, una delle più quotate riviste mediche del mondo) in un suo articolo del 2011. Infatti, nella pagina web Pandemic Preparedness del sito della WHO dal 2003 sino al 2009 (poco prima che fosse dichiarata la pandemia da H1N1) la pandemia da influenza era definita come: “An influenza pandemic occurs when a new influenza virus appears against which the human population has no immunity, resulting in several simultaneous epidemics worldwide with enormous numbers of deaths and illness.” Questa definizione, e ancor più quella aggiornata nel 2009, suscita alcuni quesiti. Esaminiamoli con ordine

  1. Qual è l’influenza stagionale per la quale la popolazione umana mostra immunità? Quello che si sa su queste sindromi è che i virus influenzali sono diversi anno dopo anno a causa di un fenomeno chiamato antigen drifting and shifting. Come ben spiegato nel sito del Centre for Disease Control (CDC) statunitense (CDC, 2019), si tratta di piccole mutazioni (drifting) che modificano alcune proteine di superficie del virus in grado di sollecitare una risposta del sistema immunitario dell’ospite, oppure di mutazioni importanti (shifting) in virus influenzali di tipo A in grado di produrre nuovi sottotipi. Così, i virus influenzali non sono mai uguali a quelli attivi nella stessa stagione degli anni precedenti, anche se è possibile classificarli in tipologie note di virus. Se così non fosse, perché invitare con grande battage pubblicitario la popolazione a vaccinarsi ogni anno? Se fosse possibile acquisire immunità ad un virus influenzale, sempre lo stesso anno dopo anno, l’incidenza dell’influenza dovrebbe diminuire drasticamente nel corso del tempo. Si sa benissimo che non è così. Il sito web dell’Istituto Superiore di Sanità ci ricorda che, per la stagione influenzale 2019/2020, i casi registrati in Italia sino al 9 aprile 2020 erano 7.199.000. Dunque, appare lecito concludere che ogni epidemia di influenza abbia almeno una delle caratteristiche di una pandemia, perché non si verifica mai che un’epidemia stagionale di influenza si sviluppi a carico di virus per cui la popolazione esprime immunità. 
  2.  Cosa significa “several epidemics worldwide”? Anche qui si rimane nel vago. Quante epidemie locali debbono scoppiare simultaneamente per lanciare l’allarme pandemia? Quanti paesi debbono essere simultaneamente colpiti? Almeno dieci, oppure cinquanta, o cento?
  3.  Cosa significa “with enormous numbers of deaths and illness”? “Enorme” non è un numero e lascia adito ad interpretazioni. Come abbiamo visto una “normale” influenza stagionale provoca solo nel nostro Paese 7.199.000 casi verso la fine del periodo influenzale. Mamone Capria(2020) in un suo recente articolo riporta una stima ragionata, valutata sui dati ufficiali disponibili, della mortalità per sindromi influenzali in Italia. Bene, ogni anno per questa causa muoiono nel nostro paese circa 34.000 persone. Non sono questi numeri “enormi”, che si ripetono praticamente ogni anno? Con tutta probabilità numeri analoghi si riscontrano in ogni paese in cui è attiva un’epidemia influenzale. Dovremmo dunque concludere che siamo di fronte ad una pandemia ogni anno?
  4.  Pare accertato che in Italia circolino ceppi di Cov-19 diversi da quelli cinesi, ceppi forse autoctoni o importati dalla Germania (Zehender et al., 2020). E’ lecito chiedersi se anche in altri paesi si verifichi la stessa cosa. Se così fosse, perché parlare di pandemia se le epidemie nazionali sono sostenute da ceppi diversi, ancorché appartenenti alla stessa famiglia di coronavirus? Siamo di fronte ad una pandemia oppure ad una serie di epidemie locali? E’ lecito chiedersi questo perché la simultanea presenza di epidemie influenzali stagionali in vari paesi, a carico di ceppi influenzali analoghi, non è condizione sufficiente per dichiarare la presenza di una pandemia (Kelly, 2011). Perché nel caso del Cov-19 invece si è deciso che si tratti di una pandemia?

Come ci fa rilevare Doshi, la definizione di pandemia viene così modificata nel 2019: “An influenza pandemic may occur when a new influenza virus appears against which the human population has no immunity.”. Come si vede è stata eliminata la frase “with enormous numbers of deaths and illness” senza però eliminare le incertezze interpretative. Kelly (2011) riporta un’altra definizione di pandemia: “an epidemic occurring worldwide, or over a very wide area, crossing international boundaries and usually affecting a large number of people” che elimina il concetto di immunità e mantiene tutte le incertezze della precedente, tanto che l’autore precisa: “seasonal epidemics [di influenza] are not considered pandemics”. Dunque, le epidemie annuali di influenza non sono da considerare come delle pandemie.

 

La pandemia si avvicina...

 

Questa è davvero una storia strana. Con inquietante frequenza si sono lanciati allarmi di pandemie virali devastanti a carico di virus influenzali o simil-influenzali, tipo coronavirus, o di altro tipo (ad esempio l’Ebola), che poi non si sono verificate. Già nel 2002 si può leggere nel Piano italiano multifase d'emergenza per una pandemia influenzale (Ministero della Salute, 2002): “Negli ultimi 23 anni si sono verificati inoltre svariati casi di "falsi allarmi" (vedi tab. 1), con virus influenzali trasmessi all'uomo direttamente da un'altra specie animale. Non si è però assistito ad una diffusione dei virus nella popolazione”.

Quindi, nel 2002, il Ministero della Salute riconosce che ci sono stati “falsi allarmi”. Approfondire quest’aspetto è di fondamentale importanza, perché i “falsi allarmi” continuano anche dopo il 2002 e diventano sempre più inquietanti.

Una disamina di tutti questi casi è impossibile in un solo articolo, per cui ci limitiamo ad esaminarne uno particolarmente significativo: la SARS 2202/2003

 

La SARS 2002/2003.

 

L’acronimo SARS sta per Severe Acute Respiratory Syndrome, una sindrome causata dal coronavirus denominato SARS-CoV e attiva dal 1° novembre 2002 al 31 luglio 2003. La SARS è stata responsabile nel mondo di 8.096 casi e 774 morti (indice di letalità 9,6%) con 4 casi in Italia e nessun decesso. L’analisi è basata sul dati disponibili al 31 dicembre 2003 (WHO, 2004). La WHO definisce così il virus “We know it is caused by a new type of coronavirus – a virus family usually associated with the common cold” (WHO, 2003a). L’infezione partì dalla provincia cinese meridionale del Guangdong negli ultimi mesi del 2002, per poi approdare ad Hong Kong e Hanoi, prima di diffondersi in molti altri paesi. Mackenzie et al. (2004) riportano che “SARS was successfully contained in less than 4 months, largely because of an unprecedented level of international collaboration and cooperation”, con ristrette misure di confinamento in Cina, dove furono isolate circa 7.000 persone. Le Borse di Shanghai e Shenzhen furono chiuse dall’inizio alla metà di maggio 2003. In Italia, bisogna aspettare il 30 aprile perché il Commissario straordinario Bertolaso imponga controlli, ma solo nell’aeroporto di Fiumicino dove medici con tute a corpo intero, mascherine a tripla azione filtrante e guanti in lattice, misurano la temperatura corporea a tutti i passeggeri provenienti dalle zone a rischio (La Repubblica, 2003).

David L. Heymann, esparto della WHO, nell’aprile del 2003 dichiarò “If the SARS virus maintains its present pathogenicity and transmissibility, SARS could become the first severe new disease of the 21st century with global epidemic potential" (CIDRAP, 2003). La WHO lancia il primo allarme pandemia il 12 marzo 2003 segnalando casi di polmonite atipica in Asia (WHO, 2003a). E’ del 15 marzo il secondo allarme globale e la definizione della sindrome come SARS (WHO, 2003b). L’allarme si diffonde nel mondo intero e si comincia a calcolare quanti casi di SARS e quanti morti ci si possono aspettare. Choi e Pak (2003) calcolano per il Canada, dal 25 febbraio al 25 giugno 2003, 50.500 possibili casi e 4.488 morti. Si conteranno invece 251 casi e 43 morti (WHO, 2014). Il 5 luglio 2003 la WHO dichiara contenuta in tutto il mondo la pandemia da SARS (ISS, 2003). Stando ai dati, quindi, a posteriori la SARS non può essere inserita nel novero delle pandemie (Galantino, 2010), anche se Cherry e Krogstad (2004) pubblicano un articolo dal titolo “SARS: The First Pandemic of the 21st Century”, riportando stime diverse da quelle della WHO: 8422 casi e 916 decessi. Cherry e Krogstad non sono i soli ad insistere nel definire la SARS come la prima pandemia del 21° secolo. Una rapida ricerca su Google Scholar è sufficiente per verificare quanto sia diffusa questa visione delle cose nella comunità scientifica.

Nel luglio del 2003, quando ormai l’allarme per una pandemia, che non si è mai verificata, è completamente rientrato, la Commissione Europea stanzia 9 milioni di euro per lo studio della SARS (Commissione Europea, 2003). A questo punto cominciano i commenti fantasiosi per spiegare come una pandemia, che avrebbe dovuto causare un numero tanto alto quanto imprecisato di vittime, si esaurisce in  circa 4 mesi. Il virologo italiano Fernando Dianzani rilascia nel marzo del 2008 una dichiarazione, raccolta dalla giornalista Margherita De Bac, perlomeno curiosa: “Il virus è tornato nel suo habitat naturale perché ha perso le caratteristiche aggressive. In quella situazione la barriera sanitaria dei Paesi occidentali ha funzionato. L'epidemia non ha toccato l'Europa” (De Bac, 2008). A parte il fatto che il virus toccò Finlandia, Francia, Germania, Italia, Irlanda, Romania, Spagna, Svezia e Regno Unito (WHO, 2004), il ritenere che un virus patogeno possa uscire dal suo normale habitat (gli animali selvatici) e poi rientrarvi tranquillamente non trova francamente riscontro nella letteratura scientifica. Resta il fatto che la fine della “pandemia non pandemica”, dopo soli 4 mesi, rimane un evento per il quale non ci sono ancora valide spiegazioni.

Il virus della SARS pare abbia molti ospiti tra gli animali selvatici: la civetta della palma (un mammifero carnivoro), il procione, il furetto (Bell et al., 2004), i pipistrelli (Li et al., 2005), il tasso, il gatto domestico, il castoro, il muntjak della Cina, il macaco, il cane domestico, la volpe, il cinghiale, il fagiano ecc. (Shi e Hu, 2008). Non vorrei generalizzare, ma viene da pensare che la lista degli animali (selvatici, domestici e di allevamento) potrebbe essere ancora più lunga se se ne analizzassero altri.

Interessante quanto riportato in un comunicato stampa dell’Università di Harward, una delle più prestigiose al mondo, del maggio 2003, dal titolo “SARS Model Shows Virus Has Potential To Spread Widely in the Absence of Effective Public Health Interventions”. Nel comunicato si legge: “Using a computer model to quantify and predict the spread of severe acute respiratory syndrome (SARS), researchers at Harvard School of Public Health have determined that the virus has a real potential to spread widely but can be effectively controlled-- even without a vaccine or drug treatment-- through public health measures including quarantine, isolation of sick patients and stringent protection of hospital personnel”. Dunque, una modellizzazione matematica dimostra che la pandemia poteva esserci, anche se non c’è stata, grazie alle misure di contenimento, peraltro molto limitate e che hanno interessato solo pochissimi paesi e nemmeno lontanamente paragonabili a quelle messe in campo oggi per il Cov-19. Ritorniamo dunque ai principi della microbiologia empirica o alla microbiologia del lazzaretto: confinamento e quarantena, senza bisogno di vaccini e medicine da somministrare. Detto dagli esperti dell’Università di Harward genera un certo disorientamento, vista l’enfasi che oggi tutte le autorità mediche del mondo mettono sulla vaccinazione, inclusa quella prossima ventura per il COV-19.

Nello stesso comunicato uno degli autori della ricerca dichiara: “Our study shows in a quantitative way that SARS could have spread very widely and still could”, in completa contradizione con ciò che è poi effettivamente avvenuto. E’ come se ci fosse, da qualche anno a questa parte, una sorta di segreto desiderio che scoppi una pandemia, per dimostrare, finalmente e una volta per tutte, che i modelli matematici sono in grado di prevedere perfettamente il nostro futuro. Una sorta di sfera di cristallo versione high-tech.

In un interessante libro a cura di John Henry Powers e Xiaosui Xiao (2008) si cerca di fare un bilancio di come la mancata epidemia di SARS è stata costruita e sostenuta dai media internazionali. Powers, nella sua introduzione al libro, profeticamente scrive “ The SARS epidemic itself lasted for only few months, concluding by July 2003. However, its handling from a communication viewpoint provides important lessons that can better prepare us all for the much larger pandemic that many in the health community are predicting will occur in the not-too-distant future.”

Questo ci porta ad affrontare il tema della gestione mediatica della “pandemia non pandemica”. Un articolo su come la stampa inglese ha trattato il tema della SARS, particolarmente interessante ed esaustivo, è stato pubblicato da Peter Washer nel 2004. Washer riporta le incredibili affermazioni di alcuni giornalisti britannici che descrivono in modo pittoresco, degno di un romanzo d’appendice di epoca vittoriana, le abitudini sociali dei cinesi e la loro commistione con gli animali. Sono state riportate scene decisamente disgustose dei mercati cinesi, dipinti come luoghi immondi in cui esseri umani, che sputano senza ritegno e starnutiscono senza coprirsi, sono a contatto con sangue e cadaveri di animali selvatici venduti a scopo alimentare, scorpioni inclusi. I giornalisti si permettono anche di vestire i panni degli infettivologi dichiarando “The Chinese fondness for animals and birds, and the proximity in which they live to them, provides ideal conditions for viruses to jump to humans” (in Washer, 2004). La lettura dell’articolo ci immerge in un mondo, quello di una parte della stampa inglese, decisamente razzista e ancora convinta che l’impero britannico domini la scena internazionale, sancendo la naturale supremazia della civiltà inglese su tutte le altre. Forse un po' di autocritica non guasterebbe. Le maggiori crisi di contaminazione dei prodotti alimentari sono state determinate, nel vecchio continente, dalle precarie condizioni igieniche e di salute degli animali di allevamento. Basterebbe, per tutte, ricordare la contaminazione delle uova inglesi con Salmonella enteriditis che, nel decennio 1988-1998, causò 374.516 casi di salmonellosi, 1.630 morti e 5.000.000 di giorni di malattia. La crisi, che durò quasi 10 anni, costò al governo britannico circa 8 miliardi di sterline, come compensazione per i 400 milioni di uova invendute e i 4 milioni di galline rifiutate dai consumatori. Come si vede, i problemi non sono mancati in Inghilterra, anche se gli inglesi non mangiano scorpioni, si coprono quando starnutiscono e non sputano per terra. BSE, blue tongue, brucellosi, afta epizootica sono altrettante crisi recenti che hanno generato danni economici enormi al settore alimentare europeo e problemi sanitari, ma non sono scoppiate in Cina.

Il 23 marzo 2003 sulle colonne del Sunday Telegraph si legge a proposito della SARS: “The next pandemic is now ready for take-off. The devastating effects of a mystery pathogen have given rise to fears of a modern-day Black Death. Doctors say it is not a question of if such a virus will emerge but when—and, millions of air travellers could spread it around the globe” (in Washer, 2004). Di nuovo un allarmismo del tutto ingiustificato. La pandemia non ci fu, ma nessuno fece autocritica e nessuno si scusò per aver paragonato la SARS alla peste.

La propensione all’allarmismo permane tra un’annunciata epidemia (poi smentita) ed un’altra. Nel marzo 2018 Jonathan Quick scrive sul giornale inglese The Sunday “A new epidemic could turn into a pandemic without warning.[…] It could be a variation of the 1918 Spanish flu, one of hundreds of other known microbial threats or something entirely new, such as the 2003 Sars virus that spread globally from China. Once transmitted to a human, an airborne virus could pass from that one infected individual to 25,000 others within a week, and to more than 700,000 within the first month. Within three months, it could spread to every major urban centre in the world. And by six months, it could infect more than 300 million people and kill more than 30 million.”. Trenta milioni di morti, uno scenario da incubo che non è chiaro da dove sia stato desunto. Forse dalle simulazioni generate da modelli matematici che, sino ad oggi, hanno costantemente sovrastimato numero di casi e morti. Ancora una volta la SARS viene indicata come una pandemia, anche quando le prove che non lo fu non potevano essere ignorate.

 

Il coronavirus Cov-19 o SARS-COV2

 

Questo è un tema particolarmente sensibile, perché sembra che il Cov-19 sia un virus del tutto nuovo, apparso all’improvviso a causa di un “salto di specie” (il candidato più accreditato è il pipistrello), capace di rapidissime mutazioni, terribilmente infettivo e ad alta letalità. La sua analogia genetica con il virus della SARS è evidenzia to anche nel nome definitivo che gli è stato attribuito: SARS-COV2. Se il virus SARS-COV ha tutti gli ospiti animali segnalati nella letteratura scientifica non si capisce perché il suo cugino stretto SARS-Cov2 debba provenire proprio e solo dal pipistrello.

Contrariamente a quanto avvenuto per tanti anni, invece che previsioni catastrofiste sull’epidemia già in corso, i messaggi che vengono diffusi dalla fine di gennaio alla metà di febbraio sono tranquillizzanti. Il quotidiano Repubblica riporta il 29 gennaio, in un articolo dal titolo “Coronavirus, gli esperti: Niente allarmismi, è meno pericoloso di SARS e MERS", la dichiarazione tranquillizzante è della la Società Italiana di Terapia Antinfettiva: “mortalità al 2%, per la SARS il dato era del 10% e per MERS del 30%.” Questa volta anche la WHO sembra minimizzare il pericolo. Infatti, il 30 gennaio 2020 dichiara che il COVID-19 è la sesta emergenza di salute pubblica di interesse mondiale (Lai et al., 2020) e a metà febbraio 2020 i vertici dell’Organizzazione, dopo aver lanciato allarmi non giustificati per MERS, SARS, suina e aviaria, ridimensionano il pericolo del Cov-19. Infatti, il sito del Ministero della Salute riporta il 18 febbraio 2020 le dichiarazioni di Mike Ryan, capo del Programma di emergenze sanitarie dell'Organizzazione mondiale della sanità, rilasciate in occasione di una conferenza stampa a Ginevra “Nel parlare di possibile pandemia da nuovo coronavirus bisogna essere molto cauti. La percentuale di casi confermati al di fuori della Cina e della provincia di Hubei è molto bassa, e quasi tutti hanno un collegamento con la Cina”. Il direttore generale della WHO, Tedros Adhanom Ghebreyesus, tranquillizzava affermando: “COVID-19 non è mortale come altri coronavirus come SARS e MERS. Oltre l'80% dei pazienti ha una forma moderata e guarisce. Nel 14% dei casi il virus causa malattia severa, con polmonite e respiro corto. E circa il 5% dei pazienti va incontro a un quadro critico con insufficienza respiratoria, shock settico e collasso multi-organo. Nel 2% dei casi riportati di Covid-19 il virus è risultato fatale, più nei pazienti anziani”. Le dichiarazioni dei vertici della WHO sono accompagnate da un rassicurante approfondimento a cura del nostro Ministero della Salute: “Uno studio del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (CCDC) indica che l'80,9% delle infezioni è classificato come lieve, il 13,8% come grave e solo il 4,7% è critico. Il numero di morti tra le persone infette rimane basso. Tra queste la stragrande maggioranza è concentrata tra gli over 80”. E’ cambiato qualcosa tra il 18 febbraio ed i primi di marzo? Il Cov-19 che imperversa in Italia ha subito mutazioni tali da diventare così pericoloso da giustificare misure eccezionali che hanno sospeso le libertà individuali, bloccato l’economia e confinato in casa praticamente tutta la popolazione italiana? E’ un virus comparabile con quello cinese che ha portato al collasso l’assistenza sanitaria nel nostro paese, provocato morti tra il personale sanitario e gettato tutti nel panico? Oppure siamo in presenza di qualcosa d’altro?

Un bilancio definitivo potrà essere fatto solo quando l’incubo in cui siamo tutti piombati sarà finito. L’inevitabile domanda da porsi è: l’incubo finirà, oppure siamo entrati in un tunnel di cui non si vede la fine? La preoccupazione è giustificata dagli allarmismi, che non esito definire criminali, diffusi anche dai sedicenti specialisti sulle riviste scientifiche. Dell’allarmismo di cui sono intrise le comunicazioni di giornali e reti televisive non è necessario parlare, visto che fanno parte della nostra esperienza quotidiana. Barro et al. (2020) scrivono “Mortality and economic contraction during the 1918-1920 Great Influenza Epidemic provide plausible upper bounds for outcomes under the coronavirus (COVID-19). Data for 43 countries imply flu-related deaths in 1918-1920 of 39 million, 2.0 percent of world population, implying 150 million deaths when applied to current population”. Se il catastrofista Johnatan Quick prevedeva nel 2008 che la pandemia prossima ventura avrebbe potuto causare 30 milioni di morti, Barro e i suoi colleghi addirittura danno ad intendere, anche se con una certa ambiguità nella loro dichiarazione, che il Cov-19 potrebbe produrre addirittura 150 milioni di morti. La comparazione tra la “Grande Pandemia di Influenza” del 1918/1920 e l’attuale emergenza Cov-19 è del tutto fuori luogo. Le popolazioni sopravvissute ad una delle guerre più violente mai sperimentate dall’umanità erano in terribili condizioni sanitarie e di malnutrizione. L’assenza di antibiotici, di cortisone, di antinfiammatori e di altri presidi farmacologici, oggi largamente disponibili, disegnano un contesto generale assolutamente impossibile da comparare con quello attuale. Come si vede la voglia di catastrofismo non influenza solo i giornalisti, ma anche i cosiddetti scienziati.

Quest’atteggiamento si ribalta sulla stima del tasso di mortalità (numero di morti/popolazione esposta x 100) e sul tasso di letalità (numero di morti/numero di contagiati x 100), che oscilla in modo erratico da un giorno all’altro e da un commentatore all’altro. Abbiamo visto che la WHO alla fine del febbraio scorso stimava la letalità del Cov-19 al 2%, un valore decisamente basso, visto che la stessa WHO stimava la letalità della SARS tra il 14 ed il 15% (CIDRAP, 2003). Ai primi di marzo il direttore generale della WHO, Dr Tedros Adhanom, stima che la letalità da COVID-19 sia del 3.4% (Science Media Center, 2020). La WHO nel suo report n. 80 del 9 aprile 2020 (WHO, 2020) riporta 1.436.198 di casi positivi nel mondo e 85.522 morti. Il tasso di letalità che può essere calcolato da queste cifre è del 5,95%. Villa (2020) cita studi recenti che stimano una letalità per il Cov-19 dello 0,7% per la Cina, mentre l’ISPI (Italian Institute for International Political Studies) la calcola in 1,14% per l’Italia. Lo stesso Villa fa delle osservazioni sulla letalità apparente (decessi confermati/casi confermati x 100) tra diversi paesi, da cui si apprende che tale parametro al 27 marzo 2020 è del 9,9 in Italia e dell’ 0,5% in Germania. Ancora più sorprendente il tasso di letalità apparente per le diverse regioni d’Italia che risulta essere del 13,6% in Lombardia (1 morto ogni 7 contagi) e dell’1,1% in Basilicata (1 morto ogni 91 contagi). Valori che lasciano alquanto perplessi e che sembrano riflettersi nei dati della protezione civile sui contagi, riportati da AFI (2020), mostrati nel grafico che segue.

 

GRAFICO DUMONTET

 

L’andamento della curva dei contagi nelle diverse zone d’Italia è difficilmente spiegabile e meriterebbe sicuramente più attenzione di quanta ne riceve dai media.

Gli esperti del Science Media Center (2020) esprimono un forte criticismo verso le cifre della mortalità  da COVID-19 diffuse dall’OMS. Infatti, il Prof John Edmunds, del Centro per la Modellizzazione Matematica  delle Malattie Infettive della London School of Hygiene and Tropical Medicine dichiara: “It is surprisingly difficult to calculate the ‘case-fatality-ratio’, or death rate, during an epidemic. [...]. What you can safely say, however, is that if you divide the number of reported deaths by the number of reported cases you will almost certainly get the wrong answer…”. Quindi tutte le stime che si rincorrono in questi giorni sembrano avere poco fondamento scientifico.

Un’interessante osservazione sulla situazione che vive l’Italia in questo momento viene da Tom Jefferson e Carl Heneghan (2020), professori di Evidence Based Medicine: “Older Patients admitted to hospital are at greater risk of delirium, pressure sores, adverse effects of new medications, malnutrition and hospital-acquired infections. An older person admitted to hospital runs the risk of never seeing the light of day again. This is probably the clearest message coming from Italy”.

 

Omissioni

 

In apertura dell’articolo avevo premesso che la situazione che viviamo poteva essere descritta da una sola parola: omissione. Il problema che affrontiamo oggi è quello di ignorare ciò che è accaduto nel nostro recentissimo passato. Le cifre dei morti e dei contagi che incessantemente ci vengono fornite, allo steso modo in cui venivano diffuse le cifre delle “pandemie non pandemie” del passato, sembrano, senza riferimenti a ciò che è accaduto negli anni scorsi, di inquietante magnitudo. Ma ci sono casi peggiori che non hanno avuto quasi nessuna risonanza.

Il già citato articolo di Mamone Capria (2020) illustra chiaramente l’entità dei decessi dovuti alle sindromi influenzali e il sito dell’Istituto Superiore di Sanità ci ricorda che il numero di casi di sindrome influenzale in Italia erano al 9 aprile 2020 ben 7.199.000

Non si tratta qui di negare la crisi odierna e il suo tragico tributo di morti. Si tratta di capire perché i morti di ieri non fecero notizia e non suscitarono nessuna emozione ed empatia come quelli di oggi. E non si tratta di episodi di piccole dimensioni. I dati riportati da Iuliano et al. (2018) mostrano che le stime per la mortalità annua da influenza per complicanze respiratorie varia tra 291.243 e 645.832 soggetti per ogni stagione influenzale nel mondo. Forse è bene ricordare che stiamo parlando di una malattia infettiva e che stiamo parlando solo delle complicanze respiratorie dovute alle influenze. Gli autori dell’articolo sottolineano: “Our estimates reflect only influenza-associated respiratory mortality, which is likely to underestimate the true burden of influenza on deaths. Influenza virus infection is also associated with hospital admission for circulatory problems and deaths, especially among older adults”.

Il SARS-COV-2, al momento (9 aprile 2020), ha causato 85.522 decessi nel mondo (WHO, 2002d), meno di 1/3 della stima più bassa delle morti annuali per complicanze respiratorie dovute all’influenza.

Purtroppo la triste casistica delle morti dimenticate non si esaurisce qui. Sui nostri media nazionali l’evento drammatico del 2015, che descriviamo qui di seguito, ebbe una scarsa risonanza, tanto che pochissimi italiani ricordano ciò che successe. Signorelli e Odone (2016) analizzando i dati dell’ISTAT rilevano che nel 2015 si verificarono in Italia 54.000 morti in più rispetto all’anno precedente, il più alto tasso di mortalità registrato dalla fine della seconda guerra mondiale. La mortalità era concentrata nella classe di età da 65 anni in su con tre picchi, uno nel dicembre 2014, uno in marzo 2015 e l’ultimo a luglio 2015. Date tipiche per la stagione influenzale invernale e per il “rebound” estivo. Una mortalità eccezionale che non ha trovato a tutt’oggi una spiegazione. Se utilizziamo le statistiche elaborate da Mamone Capria (2020) e sommiamo queste morti inspiegabili, non contabilizzate in quelle dovute alle complicanze da sindromi influenzali, a quelle per influenza il dato complessivo per il 2015 è di 88.000 morti, una cifra paragonabile ai decessi causati al 9 aprile 2020 dal SARS-COV-19 nel mondo intero. Solo che nel mondo ci sono circa 7,4 miliardi di persone e in Italia poco più di 60 milioni.

Nemmeno le circa 84.000 morti precoci causate annualmente per l’inquinamento atmosferico in Italia (Euractiv, 2018) sembrano abbiano impensierito. Così come le morti da infezioni contratte in ospedale, che passano da 18.668 decessi del 2003 a 49.301 del 2016 (Mamone Capria, 2020). Quasi 50.000 morti all’anno per infezioni nosocomiali, un triste primato che sembra non aver avuto suscitato nessuna preoccupazione in chi ci ha governato ieri e chi ci governa oggi.

Tutte queste cifre danno la dimensione di ciò che accade tutti gli anni nel mondo e nel nostro paese e permettono di leggere con più profondità e dettaglio la crisi di oggi. Dimenticare i morti di ieri non fa bene al rispetto dovuto ai morti di oggi e non aiuta a proteggere nessuno.

 

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