Un vuoto da difendere democraticamente.

Un vuoto da difendere democraticamente.

Gianni De Falco, presidente Ires Campania e coordinatore AIM*

 

matteottiQuando gli errori si accumulano, il rischio che la piazza esploda diventa alto. In Italia siamo passati dai balconi dai quali si cantava l’inno nazionale alle bombe carta e alla rottura delle vetrine.

Il nostro è un Paese diviso tra coloro che sono protetti, perché hanno una pensione, uno stipendio nel pubblico, o magari due redditi in famiglia, a coloro che invece lavorano nel privato e che in questo momento rischiano ogni giorno il licenziamento per diminuzione del personale o addirittura per la chiusura dell’attività, a coloro che lavorano in nero. Sono le due categorie: dei protetti e dei disperati.

E poi ci sono gli ultimi, i paria, quelli che sono sconosciuti, tranne che alle strade che li accolgono, prevalentemente al Sud; quelli che sono difficili da raggiungere perché hanno vissuto sempre di espedienti, i parcheggiatori abusivi, chi faceva piccoli lavoretti, che magari andava a cantare nei ristoranti «‘O sole mio», che con le misure anti Covid rischia di non mettere insieme pranzo e cena, che magari hanno una famiglia in cui rappresentano l’unico reddito.

 

 

Vedere le piazze del Nord e del Sud, da Palermo a Torino, da Napoli a Milano insieme a manifestare fa specie. Questi eventi hanno portato ad una presa d’atto: anche i lavoratori settentrionali possono rendersi conto dei disagi che normalmente vive la realtà meridionale.

Manifestazioni in venticinque città italiane. Di fronte alle piazze, terrorizzate da una nuova chiusura, con conseguente blocco delle attività e degli incassi, mentre continuano a correre affitti, rate di mutuo, energia elettrica e spesso anche qualche imposta, la gente è scesa in piazza e l’esecutivo ha velocemente rassicurato tutti che avranno soldi in abbondanza.

Ora siamo al redde rationem, come era facilmente prevedibile.

Qualcosa non ha funzionato nella gestione dei «più bravi del mondo», come fino a qualche giorno fa ci vantavamo di essere.

L’errore fondamentale? Le incertezze del Governo e le autonomie delle Regioni hanno fatto fallire l’obiettivo. Ci siamo ritrovati di fronte a venti “capetti”, tutti bravissimi a differenziarsi, ad avere la ricetta buona e giusta, tranne poi ribaltare le responsabilità dei fallimenti sul Governo centrale, quando le cose non hanno funzionato.

Mentre il primo lockdown veniva esteso a tutto il territorio nazionale per “accontentare” Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, uniche regioni che in realtà andavano bloccate, salvando, per quel che possibile, l’economia nazionale.

Quando si è in situazioni difficili e di emergenza bisogna che vi sia una catena di comando certa. Invece ci troviamo di fronte a tanti Presidenti di Regione, peraltro con almeno quindici (su venti) con una maggioranza diversa rispetto a quella di Governo, in cerca di visibilità, di affermazione all’interno del proprio partito o di facile consenso popolare.

Sembra di ritrovarsi nella Genesi: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”».

Forse, paradossalmente, hanno tutti ragione, ma nel frattempo il rischio è sempre più alto e le esigenze di governo sempre pù attuali.

Il coraggio di fare marcia indietro, soprattutto in settori chiave come la sanità, l’istruzione (scuole aperte o scuole chiuse?), la formazione e l’infrastrutturazione non mi pare ci sia, mentre l’esigenza diventa sempre più cogente. E la situazione politica è talmente in movimento che una decisione in tal senso sembra estremamente complicata.

Cosa dovrà avvenire ancora perché si abbia la lucidità necessaria per non cadere in un “buco nero” senza ritorno?

La nostra storia lo insegna, quando vengono a crearsi vuoti di governo c’è la tentazione ad occuparli questi vuoti. Quando il governo si trasforma in governo fantasma, altre realtà si propongono per “sistemare” le cose. Lo “Stato dei promotori” non comincia nei palazzi di governo ma nelle piazze.

Nel 1919-1920 non si usarono bombe carte o vetrine rotte, lo “stato promotore” si distinse per l’assalto alle Case del Popolo, alle sedi dei partiti democratici, dei giornali indipendenti e di sinistra fino ad occupare quel vuoto, democraticamente difeso dal socialista Giacomo Matteotti, ucciso.

Lo “Stato promotore” si affermò nelle piazze e nelle strade, non a caso, con una “marcia su Roma” minacciando di occupare “anche” la capitale. E occupò l’Italia per ventidue anni.

Oggi l’occupazione di quel vuoto avviene per tempi e metodi.

Le Case del Popolo si contano su una mano; i Partiti hanno sede soltanto nella capitale, le sedi periferiche contano poco più di nulla; le “sezioni” o le “leghe” (che non sono le sedi della Lega Nord) che furono i terminali dei partiti nella società non ci sono più; i giornali hanno una sola voce, controllati come sono da “editori d’affari” e gli storici giornali di sinistra sono omologati ai precedenti. L’informazione televisiva pubblica, è impegnata a copiare i notiziari e i palinsesti delle tv private e, gestita dai partiti e asservita ad essi, non garantisce equità e certezza informativa.

Non restano che le piazze. E dopo il vuoto… il clima, non quello meteorologico. Il clima sociale.

Quello dell’informazione terroristica sul caso Covid, quasi a creare un movimento, il Covidismo, a mera copia del Dadaismo (tutto è dada, niente è dada), che si esercita su termini inglesi, e molti italiani hanno scoperto l’uso del “lockdown”, quasi un gentilismo a fronte del più brutale “confinamento” o “blocco”, e lo “smart working” al posto di “lavoro a distanza”, o che ha introdotto l’antipatica forma di “distanza sociale” (che si collega a tante cose brutte) invece che “distanza sanitaria”, e “coprifuoco” che, tutte insieme, costituiscono un protocollo d'emergenza che impone restrizioni alla libera circolazione delle persone (e delle idee).

Una dichiarazione di guerra alla democrazia.

I metodi prima riportati ci proiettano in quel clima che oggi, in gran parte, si respira in Italia e che sostiene quella provinciale visione che si rispecchia nelle parole d’ordine della Lega, quel “Prima gli italiani”, che negli anni che furono fu un grido colonialista.

Peggio ancora quel clima che giustifica, oggi come ieri, la caccia al “negro”, la politica del tiro al bersaglio, la pratica della schiavitù, la caccia all’ “ebreo”, l’aggressione del “branco” al diverso e, tolti i colpevoli, i commenti diffusi “ma tanto era un immigrato”,  “era un ebreo”,  “ma era soltanto un omosessuale”, “tutto ‘sto casino per un minorato”…

Un clima che si diffonde in maniera soft, come vuota filosofia di vita, ma che attecchisce con la brutalità della forza.

Un clima che tende ad ammiccare ai governi dell’uomo solo al comando, come in alcune regioni italiane, che non a caso confermano alcuni leader per la loro capacità comunicativa e di governo fermo, più che per le proposte di innovazione e integrazione sociale, che quindi confermano quel clima apertamente antidemocratico che minaccia le nostre libertà, prova a costruire mura (invisibili) nell’economia e nel sociale, a praticare una politica provinciale, stracciona, con prospettive duali sempre più spinte spaccando il Paese, una cosa è il Nord o l’Ovest, una cosa, eventualmente, il Sud e l’Est. Tutti i Paesi hanno un punto cardinale ricco ed uno povero.

Una strisciante cultura di destra da colletti bianchi, con la puzza al naso, permea tutti i territori delle regioni italiane (comprese cinque di esse a governo di centro-sinistra).

Insomma, una nuova e "democratica" Italia fascista, potenzialmente disposta a passare dai camici bianchi alla camicia nera, o viceversa.

Corsi e ricorsi storici, come scriveva nel 1740 il filosofo napoletano Giambattista Vico. 

 

*AIM, Alleanza Istituti Meridionalisti

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