Quali politiche industriali per costruire un nuovo futuro

Quali politiche industriali per costruire un nuovo futuro

Achille Flora, docente di Economia e politica dello sviluppo Università L’Orientale di Napoli.

 

AchilleLo scenario di una seconda ondata della pandemia si è purtroppo avverato. Le previsioni negative sull’andamento della ricchezza prodotta, effettuate da diverse istituzioni internazionali (FMI, OCSE, Commissione UE) si stanno purtroppo avverando. Viesti, nel suo intervento su questo blog, ha evidenziato come gli effetti perversi di aumento delle diseguaglianze tra i diversi soggetti sociali e territori possano produrre una selezione darwiniana nel corpo sociale ed economico del Paese. Il governo sta intervenendo massicciamente con programmi di aiuti nei confronti delle attività colpite dai provvedimenti di lockdown sia nei confronti delle industrie manifatturiere e sia delle attività di servizi. Allo stato si tratta di provvedimenti assistenziali tesi ad affrontare gli effetti più dirompenti della recessione che attanaglia l’economia, criticati da più fonti per la mancanza di un approccio strategico (Viesti lo fa per l’assenza di politiche industriali) e la diffusione “a pioggia” di tali interventi, che ha già portato il rapporto debito/PIL al 158% (Banca d’Italia, Bollettino Economico, ottobre 2020). Dopo lo shock, che ha avvolto l’intera economia globale, facendo crollare PIL e commercio mondiale del 45,4% e 13,1% nel 2020, segnali di ripresa si erano manifestati nel 3° trimestre ma sono stati interrotti dalla recrudescenza della pandemia.

Eppure, rispetto alla precedente crisi finanziaria, è cambiato lo scenario delle politiche europee. Abbandonate le politiche di austerità, hanno effettuato un salto qualitativo varando un programma di aiuti, prestiti e sovvenzioni, basate sul nuovo bilancio europeo, da parte della Commissione UE, di cui una parte consistente è stata assegnata all’Italia. Non più solo politica monetaria espansiva ma coordinata con interventi di spesa pubblica, per i quali fornire risorse aggiuntive ai paesi coinvolti. L’allarme di Viesti sull’assenza di una visione strategica è quindi ben centrato, poiché i fondi europei saranno forniti sulla base di progetti e riforme che dovrebbero cambiare il volto delle economie europee, in direzione di uno sviluppo ambientale e sociale sostenibile, che ripristini la sovranità sanitaria ed operi verso una transizione ecologica e digitale attraverso un rilancio e un adeguamento alle nuove sfide delle politiche industriali.

 Almeno nel breve periodo, grazie alla politica monetaria espansiva della BCE e alla nuova forma d’indebitamento in capo alla Commissione UE, non siamo più di fronte, almeno al presente, ad un problema di sostenibilità finanziaria del debito, con effetti positivi sullo spread, sulla curva dei tassi d’interesse e sul gradimento internazionale dei nostri titoli pubblici, ma abbiamo comunque il dovere di costruire un futuro diverso e migliore. Poiché dovremo convivere per lungo tempo con questa pandemia, senza poter escludere che ne arrivino altre, politiche sanitarie, sociali, industriali, di riconversione ecologica e territoriale, devono necessariamente coniugarsi, assumendo a riferimento i territori su cui intervenire. L’eccesso di concentrazione di popolazione nelle aree urbane, particolarmente in quelle metropolitane del Mezzogiorno, va superato attraverso un coordinamento con i progetti sulle aree interne oggi in stato di abbandono, così come va riconsiderata l’organizzazione dei trasporti su scala regionale e nazionale potenziando il sistema pubblico. Se il futuro è legato all’innovazione, allora va ripensato l’approccio alle politiche industriali, ancora oggi prevalentemente centrato su incentivi di dubbia efficacia, assumendo i sistemi produttivi territoriali a riferimento delle politiche. Il nostro modello produttivo centrato su micro, piccole e medie imprese, deve evolversi tecnologicamente, sconfiggendo la tendenza a ricorrere ad una concorrenza di prezzo, da perseguire anche attraverso l’utilizzo estensivo di lavoro irregolare e mancato rispetto dell’ambiente. I Centri di trasferimento tecnologico, varati con Industria 4.0, andrebbero estesi ai territori delle PMI, innervando il Made in Italy di nuove tecnologie digitali e creando un tessuto di PMI della componentistica nei settori strategici (aerospazio, auto motive, farmaceutica) per fornire grandi imprese, da far nascere o attrarre. Questa politica di accompagnamento all’innovazione è tanto più importante nel Mezzogiorno, non solo per la minore adesione a Industria 4.0. ma anche perché micro e piccole imprese sono più diffuse, così come il ricorso a pratiche illegali per abbassare i costi.

La pandemia ha messo in crisi il sistema produttivo fondato sulle catene globali del valore, attivando reshoring e regionalizzazione di tali catene per loro intrinseca fragilità.  La posizione del nostro sistema industriale era già regionalizzata nella fase antecedente la pandemia, per i limiti dimensionali delle nostre imprese. Il rilancio di questa forma produttiva in un ambito geograficamente più ristretta può essere un’occasione di rilancio del nostro sistema produttivo, se si riuscirà ad adeguare quest’ampio tessuto produttivo alle sfide tecnologiche. È un compito che attiene alle politiche ed è il caso di dire “se non ora, quando?”

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