Sud tra costi alti e bassi salari

L’andamento della distribuzione del reddito tra le classi sociali costituisce l’indicatore più significativo del grado di tensione tra i partecipanti al processo produttivo. Se la torta del prodotto interno si distribuisce secondo fette immutate nel tempo si può evincere che la dialettica tra le parti ha raggiunto un livello di compromesso e che imprenditori, salariati e distribuzione commerciale considerano soddisfacente la quota di reddito di cui vengono in possesso. Se le porzioni vengono, da uno qualunque dei contendenti, ritenute insoddisfacenti o penalizzanti, s’innescheranno tensioni conflittuali che avranno per oggetto o la dinamica delle retribuzioni monetarie o l’andamento dei prezzi: com’è intuibile un reddito può essere ridimensionato tramite una minore retribuzione, a parità di livello dei prezzi, oppure tramite una diminuzione del suo potere d’acquisto, a parità di erogazione monetaria. In Campania stiamo assistendo, oramai da circa un biennio, al brusco ridimensionamento della quota dei redditi da lavoro dipendente sia a causa dell’assenza di crescita di salari e di stipendi, sia per una dinamica inflazionistica assai più elevata della media del paese. Sull’andamento delle retribuzioni dei percettori di reddito fisso, fonti statistiche ben più affidabili dell’Istat indicano che le retribuzioni nazionali sono di gran lunga inferiori alla media dell’Ue. In particolare, gli stipendi percepiti nel Mezzogiorno per tutte le figure professionali, qualificate e non, presentano uno scarto negativo oscillante tra il 15 ed il 30 per cento delle medesime paghe dell’Italia centro-settentrionale. Quanto ciò possa esser giustificato dalla minore crescita della produttività delle regioni meridionali è argomento di non facile giudizio: certo è consigliabile un qualche aggiornamento statistico ed informativo degli epigoni dei differenziali salariali quali panacea di un incremento dell’occupazione. Per ciò che concerne l’andamento dei prezzi è altrettanto noto che la Campania, e Napoli in particolare, sta esprimendo una dinamica ben più marcata della media nazionale: le stesse rilevazioni dell’Istat, sottostimate quantitativamente e inaffidabili qualitativamente, assegnano almeno due o tre decimi di punto differenziali nell’inflazione partenopea, soprattutto nei prodotti alimentari e di largo consumo. Si potrà discettare a lungo sul peso che ha avuto l’introduzione dell’euro in quest’innalzamento dei prezzi, ma francamente questa discussione è oramai accademica e noiosa: certo è che i settori della distribuzione, all’ingrosso ed al dettaglio, stanno esprimendo una domanda di inflazione, finalizzata all’incremento della propria quota di reddito percepito. Le motivazioni di questa pretesa di una fetta di torta più ampia sono molteplici e non tutte riconducibili ad equità: quando gli affari vanno male furbizia vuole che si massimizzi il ricarico per singola vendita, piuttosto che l’ammontare delle vendite. Anche il fruttivendolo, sosterrebbe, ha famiglia. Nel lontano 1919 Keynes scriveva che non esiste mezzo più sottile e sicuro per rovesciare le basi della società che svalutare la moneta. I profittatori, argomentava, e cioè coloro che determinano l’aumento dei prezzi sono assimilati a tutti quegli operatori, imprenditori o commercianti, che, disponendo di scorte di beni, conseguono inevitabilmente un profitto, pur non avendo «scommesso» sull’inflazione. E il malcontento si estende, anche se i «profittatori» sono, in alcuni casi, la conseguenza, e non la causa, dell’aumento dei prezzi. Il malcontento è un sentimento profondamente radicato dalle nostre parti: sarebbe saggio, forse, non blandirlo ulteriormente.

Repubblica NAPOLI, 04 febbraio 2004

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