Industriali dal bastone alla carota

L’elezione del presidente di Confindustria avviene secondo modalità organizzative di tipo consuetudinario delle quali sarebbe erroneo trascurare il ruolo che la base degli imprenditori ha nell’imprimere mutamenti alle scelte di vertice. È capitato, infatti, che i mutamenti della presidenza abbiano coinciso con significativi momenti di cesura rispetto a temi cruciali dell’economia nazionale. L’avvocato Agnelli, arrivato nel 1974 ai vertici di Viale dell’Astronomia, riassunse il suo programma nel motto «pensare l’impensabile», espressione divenuta più chiara a seguito dello storico accordo, dopo poco più di un anno, con Luciano Lama sull’unificazione del punto di contingenza. E solo pochi anni prima Angelo Costa, tornato alla guida di Confindustria al posto di Furio Cicogna, aveva immediatamente tuonato contro il «massimo» raggiunto, nella ripartizione del reddito industriale, dalla quota spettante al lavoro. A voler banalizzare i corsi e i ricorsi storici delle vicende dirigenziali dei nostri capitani d’impresa, si sarebbe tentati di confinare gli elementi di cesura delle nomine confindustriali a due grosse tematiche, sulle quali si opta talora per la soluzione “bastone” e talora per la soluzione “carota”. L’oggetto del contendere, su cui l’imprenditoria nostrana si divide e si ricompone con un’alternanza degna dei sistemi elettivi anglosassoni, è costituita dal tipo di relazioni da intrattenere con il sindacato e dagli interventi auspicati di politica economica: allorquando sono le colombe a prevalere il mix sarà costituito da un modello tendenzialmente concertato con il sindacato in tema di normative e di dinamica salariale e con i ministri della spesa e delle entrate pubbliche in materia d’incentivazione e di tassazione; se, invece, sono i falchi a raggiungere i vertici, la politica confindustriale si caratterizzerà per defatiganti scontri sui salari e sulla contrattazione aziendale e da richieste, al governo, di flessibilità organizzative e di maggiore “comprensione” fiscale. Parrebbe che il passaggio dalla presidenza di D’Amato a quella di Luca di Montezemolo possa essere annoverato come un passaggio dal partito del bastone a quello della carota. Se la supposizione fosse corretta ci troveremmo di fronte a effetti non trascurabili sull’economia meridionale dopo il quadriennio di gestione di Antonio D’Amato, durante il quale è sembrato che il contenimento del costo del lavoro avesse proprietà taumaturgiche e salvifiche rispetto alla deindustrializzazione del Mezzogiorno, alla crisi della piccola impresa, alla necessità d’utilizzo efficiente delle risorse comunitarie. In antitesi a questa visione dell’economia sembra che, con la designazione di Luca di Montezemolo, si faccia strada una posizione più articolata sulle linee strategiche da seguire nel meridione, peraltro già abbozzata in un documento stilato da Confindustria nello scorso febbraio e che avrebbe meritato una maggiore attenzione. Senza citare per una sola volta i problemi connessi con il costo del lavoro, il documento individua come prioritaria la ripresa di uno stabile flusso di investimenti da parte degli imprenditori locali e degli imprenditori nazionali. A questo proposito si stimano in oltre 75 miliardi di euro le risorse, nazionali o comunitarie, di cui le regioni del sud disporranno nel quadriennio fino al 2007. Poiché tali risorse sono, in parte significativa, connesse con il regime e la giungla degli incentivi si propone che la fruizione delle agevolazioni sia finalizzata esclusivamente all’obiettivo di stimolo della competitività, piuttosto che alla mera riduzione dei costi e che si avvii a una revisione dell’intero sistema d’incentivazione. La logica d’intervento parrebbe, dunque, ribaltata: dal contenimento dei costi alla capacità competitiva; dalle coerenze del mercato del lavoro alla selettività prospettica dell’operatore pubblico. Sembra, francamente e quale che sia il giudizio di merito specifico, una ventata d’aria fresca rispetto alle litanie claustrofobiche sull’eccessivo fardello retributivo. E che i problemi dell’economia meridionale, e di quella campana in particolare, abbiano poco a che vedere con le dinamiche salariali ci pare quanto di meglio il “Rapporto sull’economia e la società in Campania”, presentato ieri mattina dall’Osservatorio regionale, sia stato in grado di dimostrare. Rafforzamento dell’accumulazione di capitale e della struttura dimensionale delle piccole e medie imprese sembrano gli elementi su cui dovranno essere valutate le interrelazioni strategiche tra enti locali, imprenditori e sindacati: il Rapporto ben ci ricorda come dal 1997 lo sviluppo cumulato della produzione industriale campana sia nettamente inferiore alla media del Mezzogiorno, come il modello di specializzazione dell’industria campana si omologhi sempre di più a quello della Turchia e della Grecia, come le spese d’investimento delle piccole imprese siano ancora del tutto insufficienti. Ammesso che l’elezione del nuovo presidente di Confindustria consenta solo di riprendere a riflettere su tutto ciò, piuttosto che sul lavoro interinale, sarebbe in ogni caso, in epoca di vacche magre, un indubbio passo avanti.

Repubblica NAPOLI, 29 aprile 2004

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