L’effetto Parmalat su Nusco e Banco di Napoli

I sentieri della finanza sono impervi e tortuosi: impervi per chi aspira a ricostruirne agenti e flussi; tortuosi perché, mutuando il miglior Venditti, fanno dei giri immensi e poi ritornano. E capita, talora, che quanto succede nelle isole Cayman rischi di avere ripercussioni anche in Campania. Alcuni degli effetti più appariscenti del crac della Parmalat sono sotto gli occhi di tutti: in Campania, e segnatamente nella provincia di Caserta, operano taluni dei produttori di latte della multinazionale parmigiana; a Nusco è situato uno stabilimento, produttore di parte della «linea forno», ovvero focacce, merendine, plumcake. Lo stabilimento, che ha fruito degli investimenti agevolati successivi al terremoto campano, inizia la propria produzione nel 1987 e, per quanto additato spesso quale figlio del connubio De Mita-Tanzi, evidenzia una buona capacità competitiva sul mercato, in virtù dell’adozione di tecnologie sufficientemente avanzate, di relazioni industriali tra manager e sindacato fisiologiche, di una gestione degli impianti flessibilmente legata all’evoluzione della congiuntura del mercato. Ma, dicevamo, le vie della globalizzazione finanziaria fanno lunghi giri e poi ritornano: succede, così, che la Parmalat venga, nell’ultimo decennio, coinvolta sempre più in alchimie finanziarie tanto raffinate e apparentemente astute quanto rischiose e illecite, in una mescola di saga familiare e corporate bond, di asset management e di frodi di bassa lega. Le motivazioni sono, ovviamente, banali: emettendo titoli rischiosi e poco controllabili a livello nazionale si può partecipare al risiko della speculazione internazionale, tentando di ripianare le perdite che dalla produzione si evidenziano. Affrontare il problema delle perdite analizzando il ciclo produttivo è fuori moda: se si riesce ad attrarre fondi dei risparmiatori si può tentare di ripianare senza porsi i defatiganti problemi di tecnologie e di efficienza aziendale. Capita, dunque, che in un mercato di titoli internazionali stimabile intorno ai millecento miliardi di euro, la Parmalat scommetta e perda. Nel 2001 la finanziaria brasiliana di Parmalat emette un bond per 500 milioni di euro, di cui la metà destinati a coprire debiti degli stabilimenti brasiliani e l’altra metà versati presso la filiale di Grand Cayman del Banco di Santander. Il finale della storia, che si ripete oramai da oltre duecento anni, è noto: finanziere dispiaciuto in carcere, risparmiatori disperati, autorità che preannunciano inchieste e rafforzamento dei poteri di vigilanza, società di certificazione di bilancio che tentano di ripristinare profitto e verginità licenziando l’ultimo dei revisori. Nel frattempo a Nusco la demodé produzione di plumcake continua; gli ottanta lavoratori, tra un’infornata e l’altra di merendine, sono preoccupati paradossalmente dalla robustezza economica dello stabilimento: in fondo una struttura sana può trovare più facilmente un acquirente disposto a ristrutturare, a licenziare e astutamente a produrre pizze surgelate per il mercato campano. E capita infine che una delle banche più vicine alle strategie finanziarie della Parmalat sia l’Imi San Paolo che, mentre annuncia di voler rifocalizzare la propria attività sui servizi alle piccole e medie imprese alle famiglie, annunci una riduzione del personale, soprattutto del Banco di Napoli, di duemila unità. È difficile credere che questi ridimensionamenti siano dettati da efficienza e rigore, quando Imi San Paolo soffre le perdite dovute alla partecipazione nel Banco Santander Central Hispano, lo stesso coinvolto nel risiko di Parmalat e famiglia. Ma è proprio l’impotenza di poter controllare gli effetti di queste sinistre vicende che fornisce la cifra della pericolosità della nostra struttura produttiva regionale acefala.

Repubblica NAPOLI, 07 gennaio 2004

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