Il primato della politica sull’economia

Mancano pochi giorni alle elezioni, e pare lecito esprimere qualche perplessità sui contenuti del dibattito che hanno caratterizzato quest’ultima campagna elettorale. Il voto riguarderà la composizione del Parlamento europeo e il consiglio provinciale. Si tratta di realtà geograficamente distanti, ma che paiono accomunate da un triste, comune destino: la pressoché totale assenza di valutazione delle rispettive strutture economiche e di strategie di policy da parte dei candidati alla rappresentanza politica. Ma procediamo con ordine, partendo dall’Europa. L’Unione europea è una strana creatura istituzionale: la sua concezione può essere datata al secondo dopoguerra mondiale quando un manipolo di lungimiranti statisti d’origine cristiano-democratica, De Gasperi, Monnet, Schuman, Spaak, intravidero nella nascita di un’entità politica comune la possibilità di mettere fine a circa due secoli di conflitti europei, caratterizzati dalle strutturali divisioni tra Francia, Inghilterra e Germania. Yalta e la «cortina di ferro» assicuravano che il quarto interlocutore, la Russia, avesse un proprio spazio d’imperio economico. La visione, illuministica ma precorritrice, era che un equilibrio di pace stabile dovesse poggiare non già sul modello sanzionatorio che aveva contraddistinto gli accordi successivi alla Grande Guerra, fonte di sciovinismo nazional-popolare, quanto su accordi politici che stabilissero, progressivamente, interessi economici comuni, i quali, più dei patti, avrebbero garantito il vantaggio dei singoli a evitare metodi bellici per la risoluzione di eventuali conflitti d’interesse. Sarebbe stata necessaria, secondo un modello e una scansione temporale, che avrebbe poi trovato effettivo riscontro nella realtà, una progressiva liberalizzazione del mercato delle merci, la mobilità del lavoro, l’integrazione finanziaria e l’unificazione valutaria. Quanto andiamo dicendo sembrerebbe una digressione rispetto all’imminenza elettorale, ma purtroppo non è così: il dato è che l’Europa, nata dal primato della politica sull’economia, cresce e si modella, specie dopo il varo dell’euro e dell’unione monetaria, come una struttura eminentemente economica, nella quale la politica figura come un posterius trascurabile. Non è un caso che degli organi preposti alla gestione della politica economica europea Fitoussi, da queste colonne, abbia parlato di «dittatore benevolo»; non è un accidente che i politici che aspirano a uno scanno nel Parlamento di Bruxelles e di Strasburgo avranno poteri assai limitati e spesso consultivi. Il ripristino del ruolo delle istituzioni muove dalla capacità di rispondere a interrogativi su temi chiave: innanzitutto il destino del Patto di Stabilità, ovvero del vincolo attualmente esistente alla crescita del rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto interno lordo, che dopo aver stabilizzato le finanze pubbliche nazionali si è progressivamente tramutato nella principale causa di recessione dell’economia europea. Sono i nostri futuri rappresentanti favorevoli al suo mantenimento o, in caso contrario, quali spese statuali, come ad esempio gli investimenti pubblici, non andrebbero contabilizzate? Ancora: alla luce dell’allargamento dell’Unione europea a est, quale gradualismo si ritiene necessario per stornare i fondi di cui oggi beneficiano le regioni meridionali verso i nuovi territori poveri dell’Europa orientale? Il silenzio è regnato sovrano e non ci rassicurano immagini di volti ammiccanti che promettono un sud più forte in Europa. E veniamo alle elezioni provinciali. È noto quante e quali siano state le mutazioni economiche della realtà partenopea nell’ultimo decennio: la crisi della grande impresa, gli stenti alla riconversione produttiva delle aree nei centri urbani, la conurbazione selvaggia, i fiorire di piccole imprese individuali nei comuni del vesuviano, l’estendersi della porzione sommersa della nostra economia. Qual è il modello di divisione della produzione tra centro e periferia? Quale ruolo si pensa possa avere l’istituzione provinciale nella gestione dei disoccupati, nel loro reinserimento o nella loro definitiva esclusione dal mercato del lavoro? Quali incentivi è possibile immaginare per massimizzare le forme di auto-imprenditorialità, specie per quella femminile? A sentire i contenuti degli spot elettorali lo scoramento È inevitabile: si oscilla, sistematicamente, dal modello «tutto va bene, madama la marchesa» dei candidati della maggioranza al «piove, sinistra ladra» dell’opposizione. La verità è che, probabilmente, la classe politica ha smesso di interrogarsi sul come modellare i propri destini produttivi, su quanto di strategico è possibile proporre ai cittadini. Prima si entra nelle istituzioni, poi, in una situazione degenerata, qualcosa si farà. Perché, dunque, proporre misure di chirurgia sociale e produttiva prima? E così la furbizia politica fa premio sui valori delle scelte economiche in condizioni di incertezza. Napoli patisce il male opposto a quello dell’Unione europea: lì il primato dell’economia, qui quello della politica tout court. Ma ognuno ha la società che si merita: il secondo stallo che si è registrato ieri nella nomina del presidente napoletano dell’Unione industriali è l’aspetto fenomenico di una contrapposizione politica che non riesce a sostanziare contenuti economici di respiro. Secondo Keynes una società civile avrebbe dovuto finire di occuparsi di economia e rivolgere la propria attenzione ad attività più nobili, quali la religione, la musica, la danza e la filosofia, non appena si fosse liberata dal bisogno. Qui da noi ci siamo arrivati; non sapremmo se per avere soddisfatto i bisogni o, com’è più probabile, per una visione miope del proprio futuro.

Repubblica NAPOLI, 08 giugno 2004

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