L’industria scomparsa

L’occupazione, da parte degli operai della Montefibre di Acerra dello snodo ferroviario di Gianturco, fa seguito, di poche ore, alle manifestazioni di protesta dei lavoratori di Terni e di Genova. Ammesso che ce ne fosse stato ancora bisogno, i cortei testimoniano di una realtà che, oramai, solo la trasmissione Porta a Porta e qualche audace ministro ritengono di poter camuffare. L’economia italiana, ed in particolare quella del Mezzogiorno, attraversa una crisi industriale profonda, che nessuna cosmesi statistica è in grado di rimuovere e che determina un progressivo depauperamento della matrice produttiva del nostro paese. Qui giù da noi la deindustrializzazione agisce con maggiore virulenza sociale, poiché, paradossalmente, la grossa impresa contava un numero maggiore di addetti e perché gli ammortizzatori del commercio e dei servizi sono meno opulenti. L’informatica, l’aeronautica, la chimica e il settore automobilistico palesano con tutta evidenza i ritardi delle mancate scelte, strategie di crescita basate solo sulla riduzione dei costi operativi e sulla finanziarizzazione del bilancio, in assenza di qualunque scelta lungimirante di politica industriale. Muovendo dal fortunato pamphlet di Luciano Gallino sulla scomparsa dell’Italia industriale non sarebbe complicato aggiungere un secondo tomo sulla scomparsa del Mezzogiorno e della Campania industriale e trarre da quest’esperienza qualche insegnamento che sarebbe potuto sembrare ovvio. Innanzitutto la crescita del prodotto complessivo è un indicatore statistico di ben scarso affidamento. A parità di crescita sono intuibili le notevoli differenziazioni tra un incremento del reddito basato su consumi, invece che sugli investimenti o sulle esportazioni. Nel primo caso un euro di spesa non ha capacità propulsive, nel secondo l’incremento di domanda influenza e rimodella la composizione dell’offerta. Se una simile banalità fosse rammentata, forse assisteremmo a qualche apologetica presentazione in meno di ricerche sull’esplosione della crescita del prodotto interno campano. Ancora. Piccolo non è bello. Il vezzo autoreferenziale di politici e di addetti ai lavori che, da oltre un quindicennio, ci propinano in tutte le salse mediatiche che la realtà produttiva più progressiva è costituita dalla piccola impresa, dimenticano che l’impresa minore nasce, cresce e si sviluppa solo a fianco della grande; essa potrà autonomizzarsi, rendersi indispensabile, ma non c’è produzione indotta che tenga senza un’impresa «inducente» che esternalizzi conoscenze tecnologiche, che funga da ammortizzatore nelle fasi recessive del ciclo economico, che consenta vincoli meno cogenti con il sistema finanziario. Continuando. Coloro che avessero immaginato che l’unica politica industriale percorribile fosse la selvaggia deregolamentazione del mercato del lavoro e che questa, da sola, avrebbe innervato gli spenti spiriti animali degli imprenditori dovrebbe annotare che impoverimento salariale e flessibilizzazione normativa si sono accompagnati a dismissioni e al mancato ammortamento degli impianti. Basterebbe ripercorrere il vecchio triangolo industriale compreso tra la zona orientale di Napoli, l’area nolana e gli insediamenti casertani. Infine: la protesta non è tutta uguale. Se è incontestabile il contenuto eversivo delle liste di disoccupazione, ben diversa pare la protesta di chi, dopo aver subito il danno di un’inflazione ufficialmente contenuta, riceva la beffa di perdere il lavoro in una regione in inattesa e straordinaria crescita.

Repubblica NAPOLI, 11 febbraio 2004

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